Scemi del villaggio

Sara Valentina Di PalmaCerto, il Mabul non verrà più (anche se ColuiCheTuttoPuò avrebbe più di una ragione per mandarci un diluvio qua e là di tanto in tanto, ma si sa, i patti sono patti). In ogni caso, se la grande pioggia arrivasse, per un paio di giorni potrei anche non accorgermene, da quando al risveglio rifacendo il letto ho trovato sotto il cuscino l’ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer, dono tanto gradito quanto inatteso – salvo lo sconcerto per aver appreso di averci dormito sopra, letteralmente, tutta la notte…chissà che non ne abbia già assimilato tutto il contenuto per via respiratoria.
Sarebbe bello, penso, potermi chiudere in camera lasciando sulla porta il monito ‘chiuso per lettura – non disturbare’, ma la fattibilità della cosa è altrettanto probabile quanto la pioggia, di nuovo, per quaranta giorni e quaranta notti: come potei, infatti, non essere chiamata in media ogni cinque minuti per dirimere controversie regolate a suon di urla, o suggerire a questi maschi se sia meglio giocare con le carte Pokemon (ahimè siamo stati invasi anche noi) o con le Barbie (mi dichiaro orgogliosamente colpevole di ciò, con buona pace dei fanatici sessisti che gridano alla diffusione dell’ideologia del gender)? Unico pensiero consolatorio, almeno, il fatto che l’allattamento sia compatibile con la lettura…
E, a proposito di lettura, dalla stampa apprendo con sgomento della morte di una delle ultime figure caratteristiche della mia prima città di adozione. Ricordo, vent’anni fa esatti, i primi giorni di lezione all’università, in quello stesso edificio che è stato poi il mio ultimo luogo di lavoro lì, e che all’inizio mi sembrava erroneamente indicato nel notiziario per gli studenti come sede di insegnamento, allo stesso indirizzo dell’ospedale psichiatrico di San Niccolò. Invece i corsi si tenevano davvero lì, in quello che all’epoca stava trasformandosi in sede di alcuni dipartimenti universitari e di altri enti, e dove i pazienti dimessi o in regime di day hospital ci facevano spesso visita nelle aule delle lezioni – la struttura, leggo nell’interessante saggio curato da Francesca Vannozzi per Mazzotta, San Niccolò di Siena. Storia di un villaggio manicomiale, ha chiuso definitivamente tre anni dopo il mio arrivo, nell’autunno del 1999.
C’era anche lui tra i signori che vedevo spesso, lì come poi negli anni seguenti per le strade e nelle biblioteche cittadine, sempre troppo magro in abiti troppo grossi, spesso con le borse della spesa in mano. Mite e molto colto, forse segnato nel profondo da un esaurimento nervoso, faceva parte della schiera di quelli che nella mia città natale sarebbero stati chiamati sbrigativamente “sempii”, semplici, persone che perlopiù erano tutt’altro che semplici nel senso di ignoranti o stolti, anzi spesso istruite e anticonformiste, fuori dalla norma per comportamento ed eccentricità, talvolta un po’ bizzarre.
Individui un po’ mitici che popolavano la mia infanzia e oggi sembrano del tutto scomparsi dalle nostre città, forse chiusi in casa per non esporli ai pericoli, mentre libera si aggira una folta schiera di nuovi poveri e senza fissa dimora, o di persone sbandate spesso aggressive per astinenza e miseria. Loro no, in genere non erano né indigenti né pericolosi.
C’era Sisura, che significa forbici e si vestiva sempre come se fosse Purim ma in maniera molto personalizzata e creativa. C’era il Conte Beretta, il quale nobile non era, ma così era soprannominato per i suoi abiti eleganti ed i modi di fare signorili, sempre ubriaco si aggirava cantando arie d’opera. Cantava anche una signora sarda dalla voce alta e forte, sempre canzoni tragiche e sempre camminando in mezzo alla strada. Ricordo Arduino, colpito dalla meningite, dedito ad infastidire la gente chiedendo sigarette, soprattutto alle ragazze (mica scemo, direbbe qualcuno sorridendo), ed un certo Sandokan, dall’aspetto inquietante, aggirarsi per strada con un coltellaccio che non mi risulta aver mai rivolto contro nessuno. Talvolta mia nonna Sole, a pranzo, raccontava della sua giovinezza popolata da altre figure, come Giain e Tatela i quali avevano percorso un’onorata carriera di ladruncoli di galline, sempre insieme, sempre fieri delle loro imprese che raccontavano a tutti, carabinieri compresi, tanto da lasciar traccia nel lessico non solo familiare ma direi dialettale cittadino per indicare due amici inseparabili (essere come Giain e Tatela). Figure alla Jannacci de Il primo furto non si scorda mai, che sembra una canzone da grulli appunto ed invece è un inno nascosto all’antifascismo.
Quei meshugge degli shtetl di Isaac Bashevis Singer, come Gimpel l’idiota del paese, il quale in realtà è l’unico saggio del villaggio, ma tale è l’etichetta che gli è stata appiccicata addosso dalla gente, come egli stesso irride nella celebre traduzione di Saul Bellow: “I am Gimpel the fool. I don’t think myself a fool. On the contrary. But that’s what folks call me”, e come gli suggerisce il rabbino cui chiede consiglio, non è lui lo sciocco, i matti sono loro.
C’erano, loro, nella mia città natale, c’erano nella mia seconda città, mi risulta ci fossero anche nella mia terza e chiunque abbia più di trent’anni mi racconta di figure simili, chi sempre ubriaco, chi canterino, chi vestito con fogge insolite, una folla di “diversi” perché distanti dal consueto, generalmente estranei al concetto di buon ordine sociale ed al contempo ben lontani dai soggetti devianti delle strade di oggi. Chissà, forse dormono tutti sulla collina, come ci regalavano le parole di Fabrizio De André, “Tu prova ad avere un mondo nel cuore, e non riesci ad esprimerlo con le parole”, perché Dietro ad ogni scemo c’è un villaggio, ed oggi non abbiamo più né i cosiddetti scemi né i villaggi. E quando arriva il momento di andarsene, insegna Gimpel, se ne vanno con gioia, perché qualunque cosa ci sarà là sarà reale, senza complicanze, senza ridicolezza, senza inganno, e dove c’è D-o neppure un Gimpel può essere ingannato, considerato sciocco, ridicolizzato.

Sara Valentina Di Palma

(10 novembre 2016)