Barriera invisibile
Quanto ha pesato il fatto che Hillary Clinton sia una donna nella sua mancata elezione? Poco, stando alle analisi e ai commenti che si sono sentiti negli ultimi giorni. Poco, stando alle previsioni della vigilia, alle intenzioni di voto e a tutto il resto. L’ipotesi di una donna alla Casa Bianca non è stata percepita come una novità rivoluzionaria, una molla che potesse portare la gente a votarla. O, almeno, non nella misura in cui il colore della pelle di Barack Obama era stato un tema centrale nella campagna elettorale del 2008. “… un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti” aveva detto Obama nel suo discorso d’insediamento. Certo, Hillary Clinton non avrebbe mai potuto dire nulla del genere: nessuna discriminazione subita, nessun diritto ufficialmente negato e, dopo otto anni vissuti alla Casa Bianca, sarebbe stato difficile anche parlare di accesso negato alle stanze del potere. E quando una persona è percepita come influente, legata ai “poteri forti”, il fatto che sia al contempo anche oggetto di ostilità e pregiudizi non suscita troppo allarme.
Mi torna in mente quello che mi diceva nel 2008, mentre Obama stava superando la Clinton nelle primarie democratiche, un’amica che in quel periodo viveva negli Usa: “Non è un bel segnale. Dimostra semplicemente che le persone sono ancora più antifemministe di quanto siano razziste”. Forse aveva più ragione di quanto pensassi. E contribuisce al mio sospetto anche lo scarto anomalo tra i sondaggi e il voto reale: forse le persone intervistate non erano disposte ad ammettere pubblicamente di non voler votare una donna. Una barriera più sottile, meno evidente del razzismo, ma forse più insidiosa proprio perché non percepita. Una barriera invisibile come il soffitto di vetro che non è stato possibile sfondare. Forse vale la pena di ricordare che “Barriera invisibile” è anche il titolo di un film di Elia Kazan del 1947 che denunciava l’antisemitismo latente ma diffuso nella società americana.
Provo a dire queste cose alle colleghe che al bar della scuola si scambiano l’ennesimo commento su quanto siano rozzi gli americani. Mi danno ragione e nei loro discorsi aggiungono volentieri che gli americani oltre ad essere rozzi sono pure antifemministi. Dietro di noi, sulla porta a vetri che dà sul cortile, risplendono colorati i manifesti di propaganda per le imminenti elezioni dei rappresentanti degli studenti nel Consiglio d’Istituto con le foto sorridenti dei candidati: sei maschi, esattamente come l’anno scorso, in un liceo classico a stragrande maggioranza femminile.
Anna Segre
(11 novembre 2016)