Un banjo e un violino

lotoroSe in un campo di concentramento prendo la ghiera di una bomba dismessa, la aggancio a una pelle di coniglio lavorata, monto un’asta di legno ricavata da una panchina del Campo, tiro su di essa i fili metallici dei freni di una jeep militare in disuso, prendo il dorso di un pettine per stendere le corde e lo rinforzo con un pezzo di gamella, cosa ottengo?
Risposta semplice (si fa per dire): un mandolino a forma di banjo, strumento concepito dal prigioniero di guerra italiano Vittorio Longarato presso il Campo di Zonderwater (Sudafrica); per la cronaca, il banjo–mandolino è montato al contrario (Longarato era mancino) e inoltre, data l’ossessione dei britannici in materia di pulizia, i trucioli del legno furono gradualmente smaltiti nelle latrine.
Durante la Seconda Guerra Mondiale l’organologia musicale concentrazionaria (sia civile che militare) riservò innumerevoli sorprese e l’ingegno fu abbondantemente profuso non solo per fare musica ma per costruire strumenti musicali, qualora non fossero bastati quelli confiscati o consegnati dalla YMCA o acquistati al mercato nero dagli stessi deportati; si riscontrò una insospettabile attenzione da parte banjo-mandolino-costruito-da-vittorio-longarato-nel-pow-camp-di-zonderwaterdelle autorità dei Campi all’attività musicale o al reperimento degli strumenti, inoltre diversi Campi sorsero presso caserme dismesse laddove, nei locali del circolo ufficiali, non era raro imbattersi in vecchi pianoforti o altri strumenti pronti a essere rimessi a nuovo.
L’organologia concentrazionaria ci consegna una mappatura dei deportati musicisti, della loro attività e dell’accesso a razioni supplementari di cibo; per esempio, la scomparsa delle viole nell’operina Brundibár di Hans Krása a Theresienstadt (tuttavia utilizzate nella sua opera precedente) ci consegna un tragico quadro di svuotamenti causa trasferimento presso altri Campi o siti di sterminio.
Gli strumenti ad arco fabbricati nei Campi avevano ovunque il medesimo problema di tornitura e rifinitura; violini, chitarre e altri strumenti di legno avevano le casse armoniche quadrate o triangolari.
Nel maggio 1938 Il compositore ebreo austriaco Herbert Zipper fu arrestato e trasferito a Dachau; ivi, grazie ad alcuni deportati falegnami, costruì strumenti musicali e assemblò un’orchestra clandestina di 14 elementi che la domenica pomeriggio si esibiva in una latrina inutilizzata del Lager.
L’orchestra femminile di Birkenau era praticamente completa con qualche curiosità; oltre ai canonici 10 violini, violoncello e contrabbasso spiccavano una cornamusa, tre chitarre, tre flauti a becco e flauto traversiere, tre fisarmoniche, un pianoforte e tre mandolini (in seguito diventarono cinque).
Nell’aprile 1943 il violinista ebreo ceco Pavel Kling riuscì a portarsi a Theresienstadt il proprio strumento (non gli spartiti poiché aveva memorizzato l’intero suo repertorio); agli inizi del 1944 i musicisti di Theresienstadt passarono dalla disponibilità di un solo pianoforte in pessime condizioni recuperato presso l’ex liceo a ben sei pianoforti tra i quali un grancoda Steinway arrivato da Berlino.
Presso lo Oflag XA Nienburg am Weser i prigionieri di guerra francesi decisero di allestire la Sinfonia n.9 di L.v. Beethoven con un’orchestra di 150 professori, fu necessario requisire tutti gli strumenti dei Campi di prigionia limitrofi; presso lo Stalag VIIIA Görlitz il compositore francese Olivier Messiaen scrisse il Quatuor pour la fin du temps nel quale violoncello e pianoforte non suonano mai alcune note dato che sugli strumenti in uso a Görlitz mancavano le relative chiavette e corde.
Il violinista ebreo polacco Szymon Goldberg, spalla dei Berliner Philharmoniker (lasciò nel 1934 a causa delle leggi razziali), emigrò nelle Indie Orientali ma fu arrestato dai giapponesi, internato a Java e infine a Tjimahi (180 km a sud–est di Jakarta), ivi assemblò 14 violini, un flauto, trovò un pianoforte con soli 19 tasti funzionanti, un harmonium e ricostruì a memoria il Concerto op.61 per violino e orchestra di L.v. Beethoven (l’harmonium sostituì fiati e bassi, il pianoforte le parti rimanenti d’orchestra); poiché non c’erano abbastanza archetti per i violinisti, alcuni suonarono la parte in pizzicato mentre lo stesso Goldberg suonò un violino sul quale furono montate corde di chitarra.
Ma lo strumento più affascinante sopravvissuto ai Lager è un violino del sec. XIX di scuola francese recuperato dall’imprenditore milanese Carlo Alberto Carutti; è più grande dei normali violini, ha un Magen David intarsiato sul retro e, incollata nella cassa armonica, una melodia con un numero matricolare, un filo spinato e una frase che recita in tedesco “Alla musica che rende liberi”.
Apparteneva alla giovane violinista ebrea Maria Segre, catturata dai tedeschi nel novembre 1943 a Tradate con suo fratello Enzo; trasferiti a Birkenau, Maria si tolse la vita buttandosi sul filo elettrificato ma non senza aver fatto giungere il violino al fratello che lo custodì sino alla morte nel 1957.
Chi ha la fortuna di ascoltare questo violino (custodito a Cremona), si accorgerà che il suono è di una forza micidiale, come se dolori inenarrabili fossero incapsulati nel suo legno, pronti a esplodere.
Potenza della musica quando ha un futuro assicurato; quella creata e suonata nei Campi.

Francesco Lotoro

(16 novembre 2016)