Le ragazze
Mi sarebbe piaciuto, per gli scorsi cinque giorni, avere 15 anni e chiamarmi Valeria; adesso, ‘tornato’ maschio e sessantaduenne, rileggerei Le Ragazze (Einaudi, 18 Euro) e potrei confrontare emozioni e ragionamenti. Una ragazza italiana di oggi, che non era nemmeno nata nel 1969 – quando ne avevo quindici io – come reagirà a un romanzo perlopiù ambientato in California, nel pieno della ‘Summer Of Love’ che ha segnato la musica e le arti dei decenni a venire, fino a raggiungere questo primo quinto del terzo millennio? Si identificherebbe in Evie Boyd, quattordicenne testimone consapevole di quel clima che portò anche all’esplosione di violenza del massacro messo in atto dagli adepti della setta che Charlie Manson guidò? Per me, che pur lontano fui raggiunto dalle cronache giornalistiche che se ne occuparono – soprattutto perché una delle vittime fu Sharon Tate, l’attrice moglie del regista Roman Polansky – leggere il romanzo della venticinquenne Emma Cline è stato anche un tuffo nel mio passato: i nomi sulle pagine non sono gli stessi, ma il clima e gran parte dei fatti che una ormai sessantenne Evie racconta sono proprio quelli.
Ma, attenzione: è la bellezza formale, la forza della storia a fare del suo romanzo un quasi capolavoro. L’intreccio è da thriller, anche se sin dalle prime straordinarie pagine si respira un’aria da disastro imminente. E la caratterizzazioni dei personaggi, soprattutto delle ‘ragazze terribili’ che affascinano e seducono la giovanissima Evie, è resa con una maestria e una capacità di introspezione eccezionali. Per questo libro, una recensione è poco; meriterebbe un saggio, tali sono le implicazioni sociali e letterarie che la sua lettura suggerisce. Perché il segreto che Evie custodisce per la maggior parte del libro, e che trova luce solo alla fine, fa pensare alla tempesta emozionale e fisica di ogni adolescente, e segnatamente alle ragazze. Come è stato infatti ben notato da Michele Lauro, su Panorama, Emma Cline riesce a rappresentare molto efficacemente il sé femminile (individuale e collettivo) in cerca di identità. La sua bravura – tradotta mirabilmente da Martina Testa – consiste nel dirigere la tensione costantemente alla pancia del lettore, anche nei punti più riflessivi, tuffandolo nel fiume degli eventi da una violenta soggettiva capace di renderli vividi, torbidi, contagiosi.
È un romanzo imperfetto, hanno scritto però alcuni ottimi critici americani, ed è vero: ci sono parti nelle quali il treno delle sue parole-immagini va così veloce da non concedere ai lettori le fermate necessarie, e può generare spaesamento. A meno che non fosse proprio questo l’obiettivo della esordiente americana, quello di suggerire quanto poco si comprende della realtà mentre la si sta vivendo. O sarà solo che a me piace crederlo adesso, da uomo e da sessantaduenne.
Valerio Fiandra
(17 novembre 2016)