“Bassani e il Giardino dei Finzi Contini,
ecco come diventai Giorgio”

Come riconosce lui stesso, la sua vita, quella che presto assumerà le vesti di un libro autobiografico, per molti aspetti supera la finzione dei tanti film che ha interpretato, dei testi che ha portato in scena a teatro, delle storie in cui si è calato. E parte di quell’esistenza così ricca e vivace, Lino Capolicchio la racconta a “Pagine Ebraiche”, che ha incontrato l’attore a Ferrara, a Casa dell’Ariosto, dove era impegnato nella lettura di un brano de “Il Giardino dei Finzi-Contini” e di due poesie di Bassani – “Le leggi razziali” e “Rolls Royce” –, per un’iniziativa promossa dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS e dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, nella cornice delle celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore.
Da quando girò con Vittorio De Sica “Il Giardino dei Finzi-Contini” sono passati quasi cinquant’anni, eppure lei torna spesso a Ferrara. Che cosa la tiene legato alla città?
L’ho sempre trovata misteriosa e affascinante, e mi emoziona ancora ritrovarmi nei luoghi che ho conosciuto quando ero un giovane attore. Nel 1970, Ferrara mi aveva colpito anche per quanto era assolata e calda, soprattutto perché io, per esigenze di copione, dovevo indossare sciarpa e cappotto! E ricordo la grande curiosità che c’era intorno al set: non mi vedevo particolarmente bello eppure, quando uscivo dalla sartoria, trovavo ogni giorno duecento ragazze ad aspettarmi. Ed era solo l’inizio.
In che senso?
Nella mia carriera, ho ricevuto circa cinquemila lettere di ammiratrici da tutto il mondo. Una volta mi scrisse una fan persino dal Giappone, dicendosi pronta a venire a Roma per sposarmi… E quasi tutte si erano innamorate di me per il personaggio di Giorgio. Senza che potessimo prevederlo, “Il Giardino dei Finzi-Contini” ci aveva trasformati in icone, oggetti del desiderio, fissandoci per sempre nell’immaginario collettivo.
Non immaginavate che la pellicola avrebbe riscosso tutto questo successo?
No, non ce l’aspettavamo, e resto sbalordito dei riscontri clamorosi che continua a ricevere negli Stati Uniti, a Parigi, un po’ ovunque. L’anno scorso, a San Francisco, in una sala degli anni Venti ne è stata proiettata una copia restaurata e gli spettatori paganti erano mille! Del resto, non solo “Il Giardino dei Finzi-Contini” si è aggiudicato l’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 1971 e l’Oscar come miglior film straniero l’anno dopo, aiutando molto il libro a uscire dai confini italiani, ma per i critici statunitensi resta una delle dieci migliori pellicole di tutti i tempi.
capo-2Oltre a farle conquistare il David di Donatello, quell’interpretazione l’ha consegnata definitivamente alla storia del cinema, tanto che molti la identificano soprattutto con il protagonista del romanzo e poi del film. L’incontro tra lei e il Giorgio di Bassani fu casuale?
Parlerei semmai di un destino, come se un fiume ci avesse condotti esattamente lì, a incontrarci, senza possibilità di scampo. Quando frequentavo l’Accademia di arte drammatica “Silvio D’Amico”, a Roma, Bassani era il mio insegnante di Storia del Teatro. Le sue lezioni erano momenti straordinari, perché in cattedra saliva un uomo coltissimo, ma anche lunatico, raramente ironico e spiritoso, anzi capace di grande antipatia, sicuramente severo e assai temuto da noi studenti. Ecco, quando parlo di un destino che si è compiuto, intendo dire che non è normale che proprio un tuo professore sia l’autore del film che interpreterai e che ti cambierà la vita. Tanto più che, all’inizio, pareva che la regia sarebbe stata affidata a Valerio Zurlini e probabilmente lui non mi avrebbe mai scelto.
Invece le cose andarono nel verso giusto.
Nell’estate del ’62 lessi “Il Giardino dei Finzi-Contini” appena uscì e più di una volta mi ritrovai a pensare che mi sarebbe piaciuto avere il ruolo di Giorgio, con cui mi sentivo parecchio in sintonia. Insomma, un po’ lo sognavo. Poi ebbi davvero l’opportunità di fare il provino a Cinecittà. Con me c’era Laura Antonelli, che però non ottenne la parte. Vittorio De Sica mi conosceva già come attore, ma aveva bisogno di capire soprattutto se ero esteticamente adatto a indossare i panni del protagonista. E dopo una decina di giorni, la mia agente mi chiamò per dirmi che il contratto era pronto per essere firmato.
Che cosa le è rimasto dell’esperienza con De Sica?
All’epoca era un monumento. Anzi: lo considero, con Strehler, il migliore insegnante di recitazione con cui abbia mai avuto la fortuna di lavorare. E il rapporto con lui era ottimo, tanto che avevamo una nostra gag…
Ovvero?
De Sica era un giocatore incallito: dopo l’ultimo ciak, aveva l’abitudine di farsi la doccia, indossare lo smoking e scomparire con l’autista, direzione Casinò di Venezia. Rientrava all’alba, dormiva forse un’ora e riusciva a presentarsi comunque lucidissimo sul set, dove io gli chiedevo ogni volta: “Commendatore, com’è andata?”. E lui: “Cinquanta”, nel senso di cinquanta milioni dell’epoca, cioè un sacco di soldi. “Intende vinti?” – domandavo. Allora lui allargava le braccia e, con aria rassegnata, ammetteva: “Perduti…”, ricordandomi che, d’altronde, già Dostoevskij aveva scritto che i giocatori sono dei masochisti.
Incarnare il Giorgio di Bassani l’ha in qualche modo avvicinata alla cultura ebraica?
Sicuramente. La prima del film fu organizzata a Gerusalemme e una sera mi trovai a cena con Moshe Dayan, Ministro della Difesa, e seduto accanto al Primo Ministro israeliano Golda Meir. Che, dopo essersi girata a guardarmi diverse volte, mi disse: “Scusi la domanda, ma lei è ebreo? Perché nel film sembra proprio che lo sia”. E io, dopo un attimo di imbarazzo, le risposi che non mi risultava, ma che cercavo sempre di entrare in profondità nei ruoli, di documentarmi. In effetti, a uno degli aiuto-registi di De Sica, Giorgio Treves, che era ebreo, avevo fatto parecchie domande per prepararmi meglio. E molte delle cose che ho imparato da lui e da Bassani sono diventate un pezzo di me.

(Lino Capolicchio con Dominique Sanda sul set de Il Giardino dei Finzi Contini e con il direttore del Meis Simonetta Della Seta e la professoressa Anna Quarzi dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara)

Daniela Modonesi

(25 novembre 2016)