L’orizzonte che sopravanza
La vittoria del no al referendum confermativo di domenica 4 dicembre non ha del tutto sorpreso molti osservatori. Mentre invece colpisce senz’altro la sua secca proporzione. Un riscontro che deve indurre quindi a qualche riflessione di lungo periodo, ovvero oltre le reazioni del momento. La prima valutazione che si può fare, al di là del merito di una riforma costituzionale che, per come è stata proposta al giudizio popolare, poteva lasciare perplessi molti, è il fatto che oggi, in Italia come in Europa, qualsiasi cosa sia percepita (non importa se correttamente oppure erroneamente) in quanto manifestazione di volontà contro l’establishment, raccoglie quasi subito un forte seguito. Si tratta di un fenomeno continentale, per l’appunto, nel quale l’Italia è inserita di buon grado. I prossimi banchi di prova saranno i due grandi Paesi che hanno retto le sorti dell’Unione europea, la Germania e la Francia. In ciò si può leggere una netta ambivalenza: da un lato si contesta alle élite politiche di disinteressarsi del destino delle collettività, dall’altro si contesta ad esse la legittimità nel farlo. Questo è il primo punto da cui partire, ossia questa sorta di ambivalenza totale. Il secondo elemento è dato dall’esasperata personalizzazione che, oramai, investe ogni vicenda elettorale. Il carisma è una qualità del personaggio pubblico ma, nei frangenti che stiamo vivendo, rischia di tradursi in un perenne plebiscito sulla persona, con l’appannamento della comprensione del merito della materia su cui si è chiamati a pronunciarsi. Il rischio è, a conti fatti, che allora il tutto si trasformi nella permanente regressione del giudizio di senso comune: “mi piace, non mi piace”, riferendosi non a ciò che viene chiaramente sottoposto ad oggetto di valutazione bensì al profilo di chi lo va facendo. Della serie: “se non mi piaci non gioco più con te e ti butto giù da cavallo”. Il voto sul referendum costituzionale ha così rivestito i panni di un pronunciamento sulla leadership renziana. Il presidente del Consiglio uscente porta la sua parte di responsabilità, non c’è dubbio. Avendo disinvoltamente deciso di giocare su un terreno che si è rivelato, ben presto, maggiormente favorevole ai suoi avversari. Dopo di che, al di là del giudizio politico nei suoi confronti, che è e rimane personale nella misura in cui appartiene ad ognuno dei lettori di questa righe, quali sarebbero le alternative nelle quali confidare? Se ne intravede una, quella “populista” (chiamandola così in mancanza di altre parole), e lascia molto perplessi. Per usare un eufemismo. Il populismo italiano si è manifestato, al momento, essenzialmente come catalizzatore della protesta, convogliandola verso bersagli visibili, a partire dal ceto politico. Laddove alcune liste di tale impronta hanno vinto le elezioni amministrative, assumendo quindi incarichi di governo locale, i risultati si sono rivelati ben poco esaltanti. Con un’aggravante di sostanza: l’immobilismo che sta connotando l’impasto di improvvisazione, complottismi, aggressività, pressapochismi, superficialità e quant’altro, non segna solo uno stallo decisionale, destinato comunque a pesare, ma la netta tendenza, nei fatti, ad assecondare il declino che il nostro Paese sta subendo, mascherandolo sotto un concerto di invettive e la formulazioni di improbabili, se non inverosimili, proposte dal taglio utopico. Per allarmarsi, al riguardo, non c’è bisogno di rammentare che il fallimento di qualsiasi utopia ingenera il suo inverso, la distopia. Che è il capovolgimento delle speranze nelle illusioni che, a loro volta, si fanno delusioni per poi diventare prigioni della libertà. La terza considerazione è che stiamo vivendo un lungo periodo di trasformazioni (inutile continuare a chiamare tutto ciò con il solo nome di “crisi”, come se si trattasse di tornare ad un’epoca trascorsa, quando tutto, invece, sarebbe andato bene; certe nostalgie sono solo illusioni) dove il rischio che corriamo è che nazionalismi, sovranismi, identitarismi ma anche fondamentalismi di ogni risma prendano il posto della democrazia sociale. Poiché è quest’ultima ad essere messa concretamente in discussione. I populisti registrano, a modo loro, un tale trend di fondo e forniscono risposte tanto aggressive quanto incongrue. Poiché hanno la capacità di dare voce al disagio ma non sono forza di governo, se non attraverso il ricorso alla coercizione, ossia all’imposizione della loro volontà, cancellando i bilanciamenti con le opposizioni, demonizzate a prescindere. L’andamento di massima del voto, nei Paesi a sviluppo avanzato, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, ci segnala che l’elettorato formula risposte, non importa quanto scomposte e inappropriate oppure accettabili e condivisibili, ad uno stato comune di smarrimento, che deriva dal fatto che ci si sente sempre meno “protetti”, quindi abbandonati a sé, impossibilitati nel gestire il proprio futuro. Le persone, frequentemente, non domandano più libertà, se questa rischia di rimanere un’astratta condizione, bensì maggiore “tutela”: nel lavoro come nella vita quotidiana. Chiedono quindi di essere incluse in società che si presentano, all’apparenza, come maggiormente aperte rispetto al passato ma che stanno rivelando, nel medesimo tempo, un drammatico deficit di integrazione, soprattutto laddove le opportunità economiche vanno ridimensionandosi. I giovani (ma spesso anche i meno giovani) sempre più spesso lo sperimentano su di sé. Si tratta di un gravoso effetto del cambiamento che stiamo subendo e della crisi (qui sì che la parola ha un suo senso preciso), oramai incontrovertibile, di una robusta parte del ceto medio. Il quarto pensiero rinvia alla esacerbazione dei toni delle contrapposizione, laddove la diabolizzazione dell’avversario si raccorda allo “sdoganamento” di parole, pensieri e atteggiamenti che ancora non molti anni fa sarebbero stati censurati dalla stessa pubblica opinione e che oggi si trasformano nella sostanza della comunicazione politica come anche di quella collettiva tout court. Basta aprire un social network e si coglie il tasso di rabbiosità che vi circola. Su queste pagine ci siamo ripetutamente soffermati sul pernicioso fenomeno della “demenza digitale”. Adesso, dinanzi al ripetersi della “misinformation” (che non è solo disinformazione ma diffusione virale di false nozioni, di errate cognizioni, di notizie alterate), oramai si inizia a parlare di “post-verità”. Come se la conoscenza dei fatti, nell’età dell’informazione totale, divenisse improbabile se non impossibile. Un quinto fattore va, infine, considerato. Alla crisi della democrazia rappresentativa si sta rispondendo con l’illusorietà di una democrazia diretta, basata sulle virtù della mancanza di qualsiasi rappresentanza e sulla permanente convocazione plebiscitaria del “popolo”. In linguaggio politologico si definisce questo atteggiamento come “disintermediazione”. Ossia, fare a meno di intermediari collettivi, contrattando da se stessi quello che si vuole ottenere. Tre veloci considerazioni a latere: un atteggiamento di questo tempo cancella, in un colpo solo, molto ingenuamente, la cognizione che l’individuo, se lasciato da solo, è fragilissimo. E la somma di tanti individui, se non costituisce una forza ben orientata ma solo una moltitudine rumoreggiante. Seconda questione: il potere non è mai distribuito equamente. Per mutare le diseguaglianze, quand’esse si fanno intollerabili, la buona volontà da sola non basta. La storia del sionismo, segnatamente, così come delle organizzazioni ebraiche collettive, ci restituisce in maniera cristallina la consapevolezza che l’ebraismo ha maturato, spesso pagando del proprio, con la quale si debbono affrontare le difficoltà anche dei tempi correnti. Non c’è alternativa alla coalizione sociale, all’unione ben guidata, alla politica cosciente e non fatta di slogan intrinsecamente menzogneri. Senza leader consapevoli, peraltro, non si va da nessuna parte. E neanche senza una disciplina e una gerarchia, ancorché prodotto non di una imposizione verticistica ma di una mediazione. Per l’appunto: mediazione, coalizione e azione, un trinomio in assenza del quale si è indifesi. D’altro canto, il sogno di una libertà individuale senza vincoli si trasforma inesorabilmente in licenza senza freni, dove a vincere sono sempre e comunque i più forti. Mentre il resto della collettività soccombe o si subordina. Mettendo insieme queste considerazioni, e tornando alle contingenze elettorali, il quadro che ne deriva è decisamente preoccupante. Poiché maggioranze sociali ondivaghe, sottoposte a molteplici pressioni, angosciate per il tempo a venire, se non addirittura impaurite, senza però concrete risposte in vista rispetto alla loro condizione di evidente declassamento, possono diventare l’oggetto di politici, e di partiti e movimenti basati sul “risentimento”, tanto disinvolti quanto manipolatori. I quali avrebbero gioco facile ad indicare nelle minoranze la ragione del disagio collettivo. Già il ricorso, nel linguaggio di senso comune, a terminologie come “poteri forti”, evocative di complotti o comunque di catenacci di interessi, rischia di andare in quel senso, facendo credere che alla gigantesca complessità dei problemi si risponda con l’individuazione di capri espiatori. L’equazione tra “poteri forti”, e quindi “occulti”, e l’intollerabilità della presenza delle minoranze, che sarebbero dietro di essi, agendo in maniera cospirativa, è purtroppo un classico della storia, recente e non. Nel qual caso, quindi, non ci troveremmo dinanzi ad un inedito. Ai mutamenti intervenuti negli anni Venti e Trenta del secolo trascorso, sappiamo bene cosa (e come) si è risposto. La storia non si ripete mai ma certi moventi di fondo, purtroppo, tendono a ripresentarsi. Sì, ci sono ragioni per sentirsi preoccupati. Soprattutto dinanzi al rischio di una saldatura tra quella parte di collettività che non si sente più rappresentata e una “offerta politica” che recupera fantasmi mai del tutto scomparsi. Non ci si fascia la testa anzitempo ma bisogna capire quale sia la trave contro la quale stiamo rischiando di andare a sbattere. Non per urlare: “al lupo!” ma per cercare di evitarla. Soprattutto, di fare in modo che i nostri contemporanei si impegnino ad evitarla.
Claudio Vercelli
(11 dicembre 2016)