“Ferrara, il Giardino della nostra vita”Eric Finzi, il medico artista
I divieti si susseguono uno dopo l’altro lungo gli antichi muri di Ferrara: “vietato appoggiare biciclette”, “vietate fermata e sosta di biciclette”, targhe di metallo, di plastica, avvisi dipinti sugli intonaci, e ancora una placca moderna fissata a pochi centimetri dall’avvertimento originale: un “vietato appoggiare biciclette” inciso in una lista di marmo incastonata nello storico muro di mattoni rossi. A cui, ovviamente, sono appoggiate diverse biciclette. Eric Finzi non si trattiene più e scoppia in una delle franche risate a cuore aperto che caratterizzano una mattinata trascorsa a spasso per Ferrara, tra il Castello Estense, per la donazione del manoscritto de Il Giardino dei Finzi-Contini e la casa dell’Ariosto dove è allestita la sua mostra, intitolata “Ritorno al Giardino”. È l’occasione, per questo ebreo americano dal nome italiano di un ritorno a casa, a chiudere il cerchio, a partire da quel nonno ferrarese che, avendo trascorso diversi anni a Vienna, seppe intuire in tempo che le cose si mettevano male. Una storia rocambolesca, di fuga attraverso molti confini, e di salvezza, che porta a questo dermatologo di successo, che ha trovato anche una sua dimensione come artista, e grazie ai quadri dipinti con le resine epossidiche si è conquistato una fama non indifferente.
Ma le resine epossidiche non sono normalmente associate con l’arte.
Verissimo, si trovano molto nel settore nautico e aero-spaziale, insieme al kevlar o alle fibre di vetro, o in mille altri contesti industriali. Prima di iniziare a sperimentare per i miei quadri avevo incontrato la resina epossidica in laboratorio.
Un laboratorio medico?
In realtà vengo dalla biochimica, ma l’arte era entrata nella mia vita ancora prima, a partire da un episodio di cui ho memoria ben precisa: la mia professoressa di arte, mi aveva accusato di aver tracopiato un disegno. Per dimostrarle che non stavo barando ho rifatto lo stesso disegno di fronte a lei, in una scala differente… è stato l’inizio, quella stessa professoressa mi appoggiò moltissimo e così iniziai a prendere lezioni private, per poi ottenere il mio primo riconoscimento – una borsa di studio al Pratt Institute di Brooklyn – a tredici anni. Non mi sono più fermato… mi sono appassionato anche di scultura, qualche anno dopo, e ceramica.
Ma gli studi l’hanno portata in una direzione diversa.
Sì e no, non ho mai abbandonato l’arte, mi sono laureato alla Pennsylvania University in biologia e arte. Poi è venuto il dottorato di ricerca in biochimica, prima di tornare all’arte e poi trasferirmi in Francia per dipingere. Ma non per molto: sono tornato in America per finire gli studi di medicina, e ho ripreso a lavorare in laboratorio, prima di iniziare a studiare dermatologia.
Un percorso non esattamente lineare, c’è qualche collegamento con la sua storia familiare?
Non ci avevo mai pensato, ma in effetti le strade facili non fanno per me. Del resto è evidente anche nella mia scelta di utilizzare la resina epossidica. Della mia famiglia in realtà conosco solo una parte della storia: mio nonno per lavoro viaggiava molto, e mio padre ha vissuto per diversi anni a Vienna. Era lì quando ci fu la Kristallnacht ed ebbe la prontezza di spirito di capire che era il caso di andarsene, subito. Riuscirono a procurarsi dei passaporti falsi e dopo un periodo a Sarajevo si rifugiarono vicino a Orvieto, nascondendo ovviamente la propria identità.
Restarono nascosti per tutta la guerra?
No, fu più complicato: mio nonno a un certo punto fu arrestato, e mia nonna si trovò da sola. Veniva da una famiglia benestante, ed era abituata ad avere le cameriere a disposizione… e si trovò da sola a dover prendere una decisione terribile. Avrebbe potuto far liberare mio nonno, ma solo a condizione di rinunciare a tutto quel poco che era riuscita a nascondere, che era anche la sua unica speranza di riuscire a salvare se stessa e mio padre. Va ricordato anche che aveva già perso un figlio, in quegli anni, e così decise di non pagare per la liberazione di mio nonno. Vennero a sapere che una nave sarebbe salpata per l’America e mio padre, che era un ragazzino, riuscì a procurarsi una bicicletta e in una notte andò a informarsi facendo più di un centinaio di chilometri. Quella stessa bicicletta sarebbe dovuta servire per aiutare mia nonna a raggiungere la nave, ma mentre stavano scappando verso sud per raggiungere il luogo di partenza e la salvezza a un certo si ruppe. Per fortuna vennero aiutati. Riuscirono a partire.
È per questo che nella mostra compaiono le biciclette, sia nei quadri che nelle sculture?
Sì, una sorta di omaggio… fanno anche parte del mondo dei Finzi- Contini, ovviamente, come dimenticare i giri in bicicletta nel parco? Ne ho fatto una scultura: sopra due cerchioni è posata una racchetta da tennis di vetro. Un equilibrio precario, la fragilità assoluta. Le biciclette compaiono anche nei quadri, sono come fantasmi di una vita passata, vecchie fotografie. E altri cerchioni vanno a comporre le sculture che ho collocato nel giardino della Casa dell’Ariosto.
Una storia emblematica, quella dei Finzi-Contini.
Il loro rifiuto totale della realtà è l’opposto della lucidità di mio nonno, che fu capace di salvare la mia famiglia. Non venne liberato da mia nonna ma riuscì a cavarsela, si è poi rifatto una vita in Argentina. I Finzi-Contini cercarono di controllare il caos ignorandolo, io invece il caos cerco di dominarlo ogni giorno.
È questo il senso del lavoro con le resine epossidiche?
Esattamente: intanto bisogna sapere che sono estremamente tossiche, anche se non immediatamente. Quasi tutti gli artisti che le hanno usate senza proteggersi a distanza di anni sono morti, giovani, o di cancro o per malattie degenerative… ma ho lavorato nei laboratori, so come gestire le sostanze pericolose: mi sono creato una specie di scafandro, non ne respiro i vapori, e appena ho finito esco dalla stanza. Ho al massimo un paio d’ore di lavoro ogni volta. E non sto ad aspettare che le resine si asciughino.
Lo dice come se fosse molto importante.
Lo è. È questa la cosa più affascinante: le resine si possono controllare solo parzialmente. Io uso aghi e siringhe per dipingere, ma non posso mai sapere con certezza cosa succederà. Si muovono, si trasformano, in maniera sempre differente. Le conosco ma non ne ho il controllo. Si percepisce, questo, e credo che il tempo di asciugatura dia ai miei quadri una profondità diversa. Io sono sono solo il direttore d’orchestra. Buona parte del risultato non dipende da me.
È questa la magia.
Ada Treves, Pagine Ebraiche Dicembre 2016
(disegno di Giorgio Albertini)