lottare…

Nella lotta con l’”angelo” (Bereshìt, 32; 28-29) Yaaqòv viene colpito al femore, nel suo cammino, nella sua “halakhà”. Il testo dice: “ un uomo lottò (wa-yeaveq) con lui”, e i Maestri collegano questo verbo alla parola ‘avaq, “polvere”, perché i due termini hanno la stessa radice alef, bet, kof, come se lottare con un altro significasse sollevare un polverone e togliergli la terra sotto i piedi, rendendolo instabile ed etereo.
La storia non passa senza ferite, per far splendere il sole il testo sottolinea che Yaaqòv zoppica. Il suo cammino è rallentato ma non bloccato. Non dimentichiamo che il nome stesso Yaaqòv deriva dal fatto che il bambino per uscire dal ventre della madre afferrò il calcagno di Esàv. Come se, con un mirabile paradosso, l’angelo colpisse nel procedere proprio colui che faceva dipendere il proprio cammino dal ritmo di altri. Ma anche se Yaaqòv non viene “polverizzato”, l’angelo lo colpisce nel nervo sciatico slogandogli l’anca. Rallenta dunque il suo cammino tentando in tutti i modi di scollegare la parte superiore della persona dalla parte inferiore: ovvero, la mente e la spiritualità, dal sotto, il corpo e la materialità. Proprio in questo contesto, nel tentativo di scindere materia e spirito (che il sogno della scala ha cercato, viceversa , di coniugare per sempre) scaturisce per ogni figlio di Israel il divieto di mangiare il nervo sciatico degli animali destinati all’alimentazione. Come se lottare con l’angelo per diventare Israel significasse difendere anche la parte terrestre, concreta, dell’ebraismo, dove questo ipotetico angelo ne rappresenta invece il tentativo di polverizzazione. Una lotta si potrebbe dire contro un certo modo “angeologico” e celestiale, un modo più intellettuale che concreto, di vivere il proprio ebraismo. Una lotta interiore e quotidiana che scandisce la cadenza di un cammino che persegue un’autoreggenza nonostante le zoppie e le difficoltà del percorso.

Roberto Della Rocca, rabbino

(20 dicembre 2016)