JCiak – I giovani delle colline
La condanna dell’Onu e le prese di posizione di Donald Trump e del neoambasciatore americano in Israele li hanno scaraventati di nuovo sulle prime pagine. Ma gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria (West Bank), come del resto quelli di Gerusalemme Est, non hanno mai smesso di far parlare di sé. Sul fatto che siano uno dei nodi più brucianti dello scenario israelo-palestinese non ci sono dubbi. Ma ad aggiungere pepe alla questione è la mutevole galassia dei suoi fondatori, animatori, sostenitori, difficile da decifrare soprattutto nelle sue frange più giovani ed estremiste. A inoltrarsi in questo territorio è Shimon Dotan, 66 anni, regista israelo-americano, che nel documentario The Settlers intervista un centinaio di uomini e donne che vivono negli insediamenti, nello sforzo di raccontare lo sviluppo del movimento dopo il 1967 e la sua ultima evoluzione, la gioventù delle colline.
The Settlers, realizzato da Yes Docu, Arte e Radio Canada, esplora la storia degli insediamenti intrecciando interviste, immagini di attualità, riprese d’archivio e le belle immagini di David Polonski, già illustratore di Valzer con Bashir, nello stile di Gustav Dorè.
Shimon Dotan mette subito in chiaro che The Settlers si focalizza su una minoranza. La maggior parte di chi vive negli insediamenti, ha spiegato in un’intervista, lo fa per motivi economici. Le case costano meno e le città principali sono abbastanza vicine per i pendolari.
Ottantamila persone stima il regista, scelgono invece di vivere nei territori per motivi politici o religiosi ed è a loro che il film è dedicato. “Ho voluto concentrarmi sul nucleo ideologico del movimento. Mi interessa chi guida il processo”.
Gli intervistati non fanno mistero delle loro posizioni e discutono senza imbarazzi di espansioni future fino a una grande Israele che inghiotte parte della Giordania e si spinge fino al Nilo e all’Eufrate.
I più anziani sono inclini a una terminologia coloniale e tendono a sottolineare i benefici che verrebbero alla popolazioni arabe dalla diffusione dell’ebraismo.
Alcuni fra i più giovani, che tendono a stabilirsi in comunità lontane dai grandi centri, non esitano a dichiararsi razzisti e a predicare la violenza contro arabi e palestinesi, spesso paragonando il sogno di un grande Stato ebraico all’idea del Califfato.
Sono parole di fuoco, che già hanno mostrato il loro potenziale atroce. Un anno e mezzo e fa un bambino di nemmeno due anni e i suoi genitori morivano in un incendio appiccato da giovani dell’estrema destra religiosa. E solo pochi mesi fa, lo Shin Bet svelava l’esistenza di un network terrorista ebraico, sviluppatosi negli stessi ambienti e responsabile di numerosi attacchi a palestinesi.
“A quasi cinquant’anni dal primo insediamento, il movimento è un successo”, dice Dotan. “I settlers –– si considerano pionieri e leader della società israeliana. La domanda è dove ci stanno portando: alla redenzione divina, come dicono loro, o all’apartheid?”.
L’unico che finora è riuscito a opporsi alla loro espansione, sostiene il regista, è stato Rabin. “Con il suo assassinio il movimento è entrato in una nuova realtà”. “Gli insediamenti – conclude – sono al centro del problema non a causa settler, ma a causa dei governi successivi, della loro cecità e rassegnazione, delle loro miopi manovre politiche e della loro incapacità a staccarsi dalla mitologia dei simboli biblici. Solo il governo può davvero cambiare le cose. Ho incontrato molti settlers e per me non sono loro il nemico. Sono brave persone che fanno cose cattive”.
Daniela Gross
(29 dicembre 2016)