Una vittoria di Pirro

schermata-2017-01-01-alle-10-57-48Mentre i riflettori erano puntati sul voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre scorso, quando 14 nazioni hanno votato a favore di una risoluzione critica di Israele e quando gli Stati Uniti, rompendo con la loro politica consolidata, hanno deciso di astenersi piuttosto di opporsi alla mozione, la questione delle motivazioni di fondo e del comportamento di parte palestinese non è stata analizzata.
Ma avrebbe dovuto esserlo, perché in realtà è la chiave dell’intera questione.
Non basta che i palestinesi abbiano rifiutato ogni offerta di un accordo di pace negli ultimi 70 anni, ma, tragicamente, i loro errori hanno fatto sì che d’ora in avanti le possibilità di trovare un accordo siano sempre meno.
Il voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di venerdì scorso ne è un esempio lampante.
Se lo scopo era quello di aumentare le probabilità della creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano (e non al suo posto!), allora è stato un fallimento totale, nonostante l’esito sbilenco della votazione. I diplomatici che si sono affrettati ad applaudirne il risultato – e non mi soffermerò qui a parlare di nazioni criminali come il Venezuela, che non portano una briciola di buona volontà al tavolo dei negoziati dell’ONU – dovrebbero ripensare bene a quello che hanno ottenuto.
Se volevano stroncare Israele, vocazione di lunga data caratteristica di sin troppe nazioni dell’ONU, allora possono battersi il petto anche se, ahimè, è loro abitudine riservare queste critiche solo per l’unico Stato democratico del Medio Oriente. Ma per coloro il cui scopo sincero era quello di aumentare le probabilità di pace, allora hanno fatto un gran bel passo indietro, cadendo ancora una volta nella trappola palestinese.
Tre cose sarebbero dovuto essere chiarissime per tutti, ormai.
La prima è che, mentre la questione della costruzione degli insediamenti israeliani è certamente una materia altamente controversa, il punto chiave del conflitto è sempre stato il rifiuto da parte palestinese e dei loro sostenitori di riconoscere la legittimità di Israele e di negoziare in buona fede per giungere ad un accordo di pace duraturo. È stato così nel 1947-48, quando le Nazioni Unite proposero una soluzione a due Stati; è stato così nel 1967, nel 2000-2001, e nel 1998; è stato così durante il blocco di nuovi insediamenti deciso da Israele, guidato dal Primo Ministro Netanyahu, durato 10 mesi, tra il 2009 e il 2010, in risposta ad una richiesta Statunitense; ed è stato così nel 2013-14, durante il più recente tentativo di colloqui diretti e bilaterali col supporto degli Stati Uniti.
Il costante rifiuto da parte palestinese è ampiamente dimostrato dai fatti. Un commento particolarmente emblematico a proposito – che resta vero oggi come allora – proviene da una fonte improbabile. Nel 2003, il New Yorker citava così l’Ambasciatore Saudita presso gli Stati Uniti: “Mi si è spezzato il cuore quando (il Presidente dell’OLP) Arafat non ha accettato l’offerta (di una soluzione a due Stati presentata da Israele con l’appoggio degli USA nel 2001). Dal 1948, ogni volta che c’è qualcosa sul tavolo, diciamo di no. Poi invece diciamo di sì. Ma quando diciamo di sì, l’offerta non è più sul tavolo, e abbiamo meno davanti. Non è giunta l’ora di dire di sì?”
Invece di occuparsi costantemente e ossessivamente delle azioni israeliani, perché i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non chiedono ai palestinesi di spiegare perché hanno evitato per settanta anni di arrivare ad un accordo soddisfacente per entrambe le parti?
In secondo luogo, è ovvio che i palestinesi preferiscono usare scappatoie diplomatiche, evitando di sedersi al tavolo dei negoziati ma decidendo invece di internazionalizzare il conflitto. Questo li porta ad ottenere delle vittorie di breve durata, visto il peso numerico della Lega Araba, dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, del Movimento dei Paesi Non-Allineati, per non parlare dell’arte dell’espediente politico, praticata da sin troppi Paesi membri dell’ONU da cui vorremmo aspettarci di più. Per i palestinesi, a cosa è servito tutto questo? A niente, se il vero scopo dei palestinesi fosse quello di ottenere un loro Stato a fianco di Israele.
Anzi, questo modo di fare è riuscito solo a convincere molti israeliani che la leadership palestinese non è realmente interessata ad arrivare ad una soluzione, ma vuole solo continuare la lotta. Ma dovrebbe essere ormai chiaro che Israele è un Paese forte e che continua a rafforzarsi, e pensare che Israele possa cadere in ginocchio di fronte a pressioni di questo genere è pura illusione.
In terzo luogo, non sarebbe ora che i membri responsabili della comunità internazionale si fermino un attimo per capire con più attenzione quale sia il modo migliore per raggiungere la pace?
Israele ha firmato trattati duraturi con l’Egitto e con la Giordania. In entrambi i casi non sono stati siglati tramite l’ONU, ma tramite negoziati bilaterali. Israele ha fatto concessioni territoriali senza precedenti, cedendo terre che aveva conquistato nella guerra per la sua sopravvivenza del 1967, ma lo ha fatto confidando che il Presidente egiziano Sadat e il Re di Giordania Hussein avessero deciso sinceramente di smettere di far la guerra allo Stato ebraico.
In Israele, sondaggio dopo sondaggio dimostra che la maggioranza della popolazione è a favore di un accordo a due stati con i palestinesi, ma è allo stesso tempo profondamente scettica riguardo la loro sincerità. E perchè mai gli israeliani dovrebbero avere dubbi? Il Presidente dell’Autorità Palestinese Abbas, nell’undicesimo anno dei suoi quattro anni di mandato dice prima una cosa e poi l’esatto opposto; dice che vuole giungere a un accordo e poi incita i suoi alla violenza, si rifiuta di sedersi al tavolo dei negoziati, cerca di mettere israele all’angolo della diplomazia e presiede – se quello è il termine giusto – un’entità fortemente divisa, tra Hamas e Cisgiordania.
Invece di assecondare i palestinesi trattandoli da bambini viziati, soccombendo ad ogni loro richiesta sbagliata e favorendo il loro comportamento controproducente, non sarebbe finalmente ora di vedere la situazione da entrambi i punti di vista (non solo da quello palestinese), imparare dal passato e aiutare a creare una situazione che porti ad un tangibile progresso?
Quando emergeranno leader palestinesi che comprenderanno i lasciti del Presidente Sadat e di Re Hussein, che offriranno il palmo e non il dorso della loro mano ad Israele, che riconosceranno le legittime preoccupazioni degli israeliani che devono essere prese in considerazione durante il dialogo, allora, che sia Neanyahu il Primo Ministro, o che ci sia un altro leader eletto in futuro, troveranno un partner bendisposto. Tanto per capirci, Menachem Begin era tutt’altro che una colomba, era anzi un personaggio che nessuno avrebbe mai pensato disposto a dar via il Sinai, che era una vasta zona cuscinetto con giacimenti petroliferi e basi aeree, eppure lo cedette, fino all’ultimo granello di sabbia, pur di raggiungere la pace con l’Egitto.
In altre parole, le lezioni della Storia sono tante, anche se di questi tempi pare che non ci sia proprio abbondanza di studenti di Storia alle Nazioni Unite. (Se ce ne fossero saprebbero ad esempio che non potrà mai esistere un Governo in Israele che possa riconoscere l’assurdità di chiamare “territori palestinesi occupati” la città vecchia di Gerusalemme e il Muro del Pianto, con i siti più sacri all’ebraismo.)
Il voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU verrà ricordato come una vittoria di Pirro per i palestinesi, e un passo indietro verso la ricerca della pace tra israeliani e palestinesi.

David Harris, direttore esecutivo dell’American Jewish Committee

(1 gennaio 2017)