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Faccio parte in questi giorni di un convegno internazionale di rabbini ortodossi riuniti a Gerusalemme da oltre 40 nazioni. Nell’ambito del programma alcune visite a luoghi di interesse religioso e di attualità per conoscere la realtà d’Israele. La prima tappa è una località per me sconosciuta, Neweh Zuf-Chalamish – un villaggio di 250 famiglie circa 1.300 persone. Siamo nella regione che, a seconda degli orientamenti, è ricordata con il nome di Yehudah e Shomron (Samaria), “territori contesi”, “territori occupati”. La guida ci spiega che siamo vicini alla città di Modiin (così anche ricorda Wikipedia in ebraico – ma non nel testo in inglese), la storia di Chanukkah, la lotta dei Maccabei per liberare e riconsacrare il Santuario di Gerusalemme è passata da questi luoghi. È un luogo del passato su cui si è costruita l’identità ebraica.
Incontriamo alcuni dirigenti e rappresentanti della popolazione del luogo, ci parlano del posto e ricordano l’incendio che li ha colpiti recentemente, appiccato come atto terroristico durante lo shabbat alcune settimane fa, incendio che ha distrutte molte abitazioni e bruciato il bosco. Conclude i saluti un’anziana signora, sopravvissuta alla Shoah, racconta come scelse di stabilirsi in questa località per dare un’impronta di valori aggiuntivi alla scelta di vivere in Israele, la sua casa è stata completamente distrutta dal fuoco, ma lei non ha nessuna intenzione di arrendersi, per prima cosa ha ringraziato il Signore che non ci sono state vittime, poi si è trasferita come altri del villaggio in un caravan e attende con fiducia che la sua casa venga ricostruita. È un luogo che unisce drammi del passato e conflitti del presente.
Ci invitano a mettere in terra alcune piante per dare nuovo spazio al bosco colpito dall’incendio; mi ritrovo davanti a un terreno predisposto all’uopo con una vanga in mano, non riesco a sfuggire ad un’associazione di pensiero: con una vanga davanti ad uno scavo, nella mia vita di rabbino questa scena mi si ripresenta periodicamente con ben altra finalità, quella di un luogo – il cimitero – che la tradizione ebraica, nel capovolgimento di significato – chiama “Bet hachaim, casa della vita”. Invece qua sono veramente con una vanga a mettere in terra qualcosa che è rivolto alla vita nel senso più concreto della parola. È un luogo che ci volge al futuro con azioni che parlano di vita.
Non esprimo giudizi politici, racconto fatti emozioni e pensieri di una visita breve, certo insufficiente per conoscere la realtà locale, ma forse utile a comprendere la complessità di luoghi sui quali troppo spesso – al di fuori d’Israele – si applicano giudizi e categorie che sono, in un senso o nell’altro, semplicemente calati dall’alto.
Giuseppe Momigliano, rabbino
(4 gennaio 2017)