…Israele

Il mio intervento su queste pagine la scorsa settimana a proposito della votazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla risoluzione 2334 ha suscitato numerose risposte favorevoli ma anche numerose critiche. Fra queste ultime vorrei riferirmi in particolare a due reazioni, entrambe da Milano, che oltre a essere scritte con garbo, sollevano importanti problemi di fondo: quelle di Raffaele Besso su questa pagina venerdì, e di un’attivista sui social network.
All’amico Besso, che oltre a essere consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane svolge con vero eroismo il compito di copresidente della Comunità milanese, rispondo che io rispetto pienamente il suo diritto a dissentire da quanto ho scritto, ma temo che gli siano sfuggiti alcuni passaggi della mia argomentazione.
Mi assumo tutta la responsabilità per ogni eventuale mancanza di chiarezza: vivo in Israele da oltre 50 anni, per oltre 20 ho svolto il mio servizio militare annuale nella riserva di Zahal, e forse il mio italiano non è più quello d’un tempo. Ma credo anche che alcune delle tesi sostenute da parte dei miei critici non abbiamo un chiaro rapporto con il mio testo.
Partiamo dal titolo dell’intervento di Besso: “Netanyahu è stato offeso”. Il fulcro della critica sembrerebbe essere che Netanyahu, eletto democraticamente dal popolo di Israele, è pertanto meritevole di sostegno incondizionato ed è indecente la mia proposta di “licenziamento immediato”. Io a dire il vero avevo parlato del licenziamento per incapacità di un ipotetico allenatore calcistico la cui squadra subisce un rigore al 96°, ma la metafora era trasparente. La questione vera è se la richiesta di licenziamento di un leader politico sia compatibile con le regole della democrazia elettiva. Ebbene, proprio in Italia si dovrebbe essere ben consapevoli che nel 2011 il Primo ministro Silvio Berlusconi, regolarmente eletto dal popolo, fu praticamente destituito e sostituito da Mario Monti. Nel 2016, Matteo Renzi, forse non eletto dal popolo, ma comunque nominato Primo ministro secondo le procedure costituzionali della Repubblica, è stato mandato clamorosamente a casa dagli elettori e sostituito da Paolo Gentiloni. Ma è ancora più interessante osservare il percorso di Obama: quello che al momento della prima elezione nel 2008 sembrava il più intelligente, articolato, stimolante presidente americano a partire da John Kennedy, si è rivelato nel corso degli anni un leader fallimentare, che ha sì molto risollevato l’economia americana dalla voragine in cui l’aveva lasciata George W. Bush, ma ha quasi distrutto l’egemonia americana sulla scena internazionale, e in particolare ha provocato disastri a non finire nel delicato scacchiere mediorientale. E alla fine il suo partito ha perso le elezioni.
Dunque è possibile eleggere, anche a larga maggioranza, un dirigente politico e nel corso del tempo scoprire la sua incapacità e dannosità, e cercare di mandarlo via prima della prossima scadenza elettorale, senza essere tacciato di tradimento o di oltraggio a pubblico ufficiale. Questo è praticamente impossibile con la Costituzione americana, ma è perfettamente fattibile in Italia e in Israele. Non si tratta di offesa: si tratta della difesa da parte del pubblico degli interessi essenziali (percepiti) del proprio paese.
Il secondo punto di dissenso riguarda la votazione del Consiglio di sicurezza. Nessun lettore di questa pagina, credo, vede nel voto quasi unanime di 14 stati con un astenuto un risultato soddisfacente per Israele. In grande maggioranza, deploriamo l’evento che rischia di avere gravi conseguenze per la posizione politica internazionale oltre che per l’economia del paese.
Le differenze di vedute riguardano l’interpretazione di come si sia potuti arrivare a una votazione di questo genere, e in particolare al mancato veto americano. Ho postulato due ipotesi: la prima è che l’attivismo prorepubblicano di Netanyahu abbia profondamente offeso il Presidente democratico Obama, la seconda è che l’indifferenziato sostegno di Netanyahu verso tutti i tipi di insediamento in Cisgiordania abbia avuto conseguenze politiche negative (io non uso mai la parola “colonie” che mi viene attribuita da Besso, e che viene invece usata equivocamente dai nemici e dai furbi per fare di Israele un’espressione di colonialismo).
Sul primo punto ci si è dimenticati forse della cocciuta campagna di Netanyahu a favore di Romney, e anche delle sue ultime belle foto sorridenti con Trump.
Tutti sanno che uno dei maggiori finanziatori del Partito repubblicano, Sheldon Adelson di Las Vegas, è anche uno dei maggiori finanziatori di Netanyahu. Adelson spende milioni di dollari per sostenere Israel Hayom, che è diventato il più diffuso quotidiano israeliano per il semplice fatto che viene distribuito gratuitamente per la strada. Israel Hayom è una specie di Pravda in cui le azioni del governo, del Primo ministro e della sua famiglia sono elogiati ogni giorno e automaticamente.
Il discorso di Netanyahu contro il trattato nucleare con l’Iran in un Congresso americano dominato dai repubblicani, è stato manifestamente un atto di provocazione politica contro Obama. Politicamente non ha risolto nulla, perché l’indecente trattato di Vienna è stato comunque firmato, ma ha indispettito il Presidente americano che al momento opportuno si è perfidamente vendicato. Io ritengo che qui Netanyahu abbia commesso un grave errore di conduzione politica, parte di una sua consapevole scelta strategica, il cui risultato è stato la clamorosa sconfitta diplomatica all’ONU. L’alternativa sarebbe stata la creazione di un quieto modus vivendi con l’Amministrazione democratica, negoziando intensamente dietro le quinte. In una trattativa basata sugli interessi comuni dei due paesi, sia Obama sia Netanyahu avrebbero potuto e dovuto concedere qualcosa alla controparte. La concessione israeliana sarebbe stata ovviamente una sospensione almeno temporanea dello sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania.
Intendiamoci: gli insediamenti non costituiscono il reale ostacolo al processo di negoziato regionale che ha ben altre cause, ma lo sono diventati senza dubbio nella retorica del discorso politico internazionale, e di questo chi vuol fare politica non può non tenere conto.
Invece, come sottolineavo nel mio intervento, Netanyahu nei suoi discorsi pubblici degli ultimi mesi ha chiaramente sostenuto non solo le costruzioni legali ma anche quelle illegali – illegali ben inteso secondo la legge israeliana.
Non mi interessa qui se la legge internazionale non riconosce gli insediamenti, ma semmai il fatto che la Corte suprema a Gerusalemme ha emesso ripetute sentenze di sgombero per l’insediamento di Ammona dal terreno di un privato palestinese su cui è costruito, sentenze che però fino ad oggi non sono state eseguite.
Il governo di Bibi invece ha cominciato ad architettare una legge che permetta di aggirare le sentenze della Corte suprema onde poter mantenere in piedi le costruzioni illegali.
Il deputato della coalizione Moti Yogev (Habayt Hayehudi), presidente di un sottocomitato per la Giudea e Samaria della Commissione Esteri e Difesa della Knesset, ha anche suggerito di mandare un bulldozer contro l’edificio della Corte Suprema. Questo tipo di valori politici e civili espressi dall’amministrazione Netanyahu degrada la democrazia israeliana e la ridicolizza di fronte al mondo.
Non penso che Raffaele Besso vorrebbe udire simili espressioni rivolte contro la Corte Costituzionale a Roma. Ma è così: un colossale danno di immagine internazionale è stato provocato dall’indistinto sostegno di Netanyahu e del suo governo, non tanto a favore dei generici abitanti della Cisgiordania, quanto di gruppuscoli di zeloti deliranti. Sarebbe stato sufficiente porre un limite operativo agli eccessi tipo Ammona, senza nemmeno rinunciare alla retorica di una politica nazionalista. Politica che non è la mia, ma che effettivamente è resa possibile dalla coalizione emersa dal voto popolare alle elezioni del 2015.
Non stiamo dunque assolutamente mettendo in questione i diritti politici di Israele o la giustizia morale della causa israeliana, e nemmeno il fatto che da parte palestinese la disponibilità a un serio colloquio sia praticamente inesistente.
Ho deplorato più volte in questa sede e altrove le votazioni compatte e preconcette all’Onu e all’Unesco. Ma il nome del gioco sul cui terreno Netanyahu ha perso la partita è “fare politica”. Per fare questo sarebbero occorse centinaia di ore di minuziose conversazioni diplomatiche, quindi una direttiva chiara, ma anche un indefesso ministro degli Esteri. Ma Netanyahu ha deciso di non nominare un ministro degli Esteri e detiene invece lui stesso il portafoglio, oltre a quello delle Telecomunicazioni, che controlla pesantemente i direttori delle reti televisive, e per un certo periodo anche quello dell’Economia che arbitra nella regolamentazione delle risorse del gas sottomarino.
La concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo è praticamente senza precedenti dai tempi di Ben Gurion, e come si è ben visto in occasione della votazione all’Onu, causa gravi danni all’efficienza del governo, per non parlare degli enormi conflitti di interesse fra chi dovrebbe proteggere la libertà di stampa e chi chiede alla stampa di essere sottomessa e adulatoria.
Come dice il proverbio israeliano: “‘Al tihyié zodèk, tihyié chachàm”: “Non cercare di avere ragione: cerca di essere saggio”. Quello che conta veramente è il risultato finale. Per mantenere il veto americano Israele sicuramente avrebbe dovuto pagare un certo prezzo, ma valeva la pena di pagarlo perché la situazione che si è creata ora è molto peggiore. Le reazioni di Bibi dopo il voto sono poi davvero sconcertanti, del tipo: “Spezzeremo le reni al Senegal” perché ha votato contro Israele. Ma non “Spezzeremo le reni alla Russia”, che pure ha votato contro. Oggi lo stato d’Israele è completamente isolato nella compagine delle nazioni.
Il discorso del ministro degli esteri Kerry, che proprio alla scadenza del suo mandato si è risvegliato delineando il suo copione politico (troppo poco, troppo tardi), in definitiva non ha detto nulla che non fosse già stato espresso da chi predilige ed esige uno stato di Israele ebraico (dunque senza i due milioni e mezzo di palestinesi in Cisgiordania, oltre agli oltre 300 mila a Gerusalemme Est, che invece l’altra sera in televisione il viceministro degli esteri Tzipi Hotovely ha chiesto di annettere) e democratico (in cui tutti i cittadini votano, senza esclusioni tipo apartheid). Kerry ha perfino ricordato l’esigenza del riconoscimento di Israele in quanto Stato ebraico. Se oltre 70 per cento degli ebrei americani hanno scelto i democratici, certo non intendevano votare per un partito antiisraeliano o comunque punire Israele.
E prima di dare ciecamente credito al neopresidente Trump aspettiamo di vedere come si comporterà. Data l’infinita imprevedibilità e la totale ignoranza politica internazionale di questo imbonitore, venditore di elisir di lunga vita, forse ne vedremo delle belle. Se l’ambasciata Usa passerà a Gerusalemme, sarà un gesto di alto profilo che non mancherà di suscitare reazioni rabbiose, ma per ora è ancora a Tel Aviv, e non capisco come Raffaele Besso possa sostenere la falsità della mia affermazione che nessun paese al mondo riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele. Nemmeno l’Italia che dal Primo gennaio fa parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Un’attivista sui social network solleva invece un altro problema molto serio che è quello dei limiti del dibattito su Israele di fronte a un’opinione pubblica italiana generalmente male informata e nella quale operano gruppi islamici estremi come la Ucoii, “intellettuali” come Moni Ovadia, o perfino influenti movimenti politici come M5S.
In teoria, la stampa ebraica in Italia potrebbe limitarsi a pubblicare da Israele notizie edificanti nel campo della scienza e della cultura. Ma servirebbe davvero questa immagine idillica e oleografica a combattere i nemici, gli antisemiti attivi e latenti, i compagni di strada in questo lungo viaggio contro lo stato di Israele e in definitiva contro il popolo di cui è espressione sovrana?
Secondo questa teoria gli ebrei della Diaspora, e dunque i suoi organi di comunicazione, dovrebbero essere fedelmente schierati dietro il governo di Israele, qualunque esso sia e qualunque cosa dica o faccia. Ma il governo di Israele è espressione di una società israeliana nella quale le tesi critiche da me pubblicate su questa pagina fanno parte della normalità quotidiana in un dibattito aperto che comprende anche posizioni molto più radicali. Dunque la Diaspora dovrebbe appoggiare senza discuterlo il governo che gli Israeliani hanno votato. Gli Israeliani, da parte loro, avrebbero il diritto di criticare dall’interno ma non all’esterno.
E di fatto gli israeliani ogni tanto cambiano il loro governo, anche da un estremo all’altro: rammentiamo che dopo il primo Rabin è venuto Begin, dopo Shamir è tornato Rabin, dopo il quale è arrivato il primo Netanyahu, dopo Netanyahu è venuto Barak, dopo il quale è venuto il primo Sharon, seguito dal secondo Sharon e da Olmert, dopodiché è tornato Netanyahu. Se cambia il governo vuol dire che il paese è stufo di quello attuale.
Nella Diaspora ebraica invece sarebbe vietato criticare, ma tutti seguiranno immediatamente come un sol uomo il nuovo corso, se e quando ci sarà. O forse no?
E se la Diaspora sapesse meglio di Israele quale sia la giusta via da seguire in Israele? Forse allora non sarà del tutto peregrino rammentare che in occasione dell’ultimo referendum costituzionale, la Diaspora italiana ha votato in maniera decisiva per il Sí, mentre i cittadini in Italia hanno votato nettamente per il No. Chi capisce meglio un paese e le sue esigenze: quelli che ci vivono oppure quelli che lo guardano con un certo affetto dall’esterno?
È vero che la critica nei confronti di Israele viene strumentalizzata, ma l’alternativa è l’assenza di critica, è l’ammasso dei cervelli.
Credo che le persone ben intenzionate vogliano non solamente uno Stato di Israele con cui identificarsi senza magari capirne la lingua o senza averlo mai visitato (come la maggioranza degli ebrei americani), ma semmai un Israele di cui essere orgogliosi perché è una società aperta, democratica, in rapido sviluppo, tollerante e onesta.
Una società in cui ognuno può esprimere la sua identità ebraica a proprio agio, in cui le persone si sentono bene, e in cui la Corte Suprema è la custode della legalità – in un regime costituzionale di divisione dei poteri.
La strategia della comunicazione, anche dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, è al centro delle giuste preoccupazioni dell’attivista sui social. Nel compiere questa scelta strategica sarà bene chiedersi se sia più utile seguire la pancia oppure la testa.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(5 gennaio 2017)