L’attualità della negazione
A volte si ha come la percezione di condurre una battaglia di retroguardia. Tessendo la tela di Penelope o adoperandosi nelle fatiche di Sisifo. Fatta una cosa, essendo convinti di avere messo finalmente alcuni punti fermi, condivisi, ecco che tutto torna all’indietro, come le lancette di un orologio che vanno in senso antiorario. Molto dell’impegno sembra essere inutile, in altre parole, poiché agli sforzi continui corrisponde il riscontro della loro vacuità. Ci si domanda quindi, bloccando un attimo le macchine del proprio pensare e fare, che altrimenti macinano da sé terra e tempo, se non sia bene soffermarsi a scrutare criticamente il panorama, non dandolo per scontato in alcun modo. Si tratta quasi sempre di un buon esercizio, che aiuta a tenere i piedi per terra. Dopo di che, c’è sempre qualcosa o qualcuno che ci fa sobbalzare. Non è che i piedi perdano contatto con la terra. Semmai è la terra ad ondularsi e a dare quest’impressione. Da diverso tempo ci si interroga sulla manutenzione della memoria, così come sulle offese che ad essa continuano ad essere arrecate. Lo si fa oramai d’abitudine anche in prossimità del giorno che, nel calendario civile, è consacrato alla sua celebrazione sociale, civile ed istituzionale, ossia il 27 gennaio. Il ritualismo è un pericolo già da tempo denunciato. Non di meno, si è pervenuti alla convinzione che ciò che chiamiamo per l’appunto memoria, quanto meno quella oggetto di una diffusa pedagogia civile, tale perché si riflette su un’intera comunità di persone, fatta di ebrei, ma soprattutto di non ebrei, non costituisca un blocco rigido, monolitico di cognizioni e, ancora meno, di pensieri di senso definitivamente compiuto. Men che meno è un “obbligo”, predefinito aprioristicamente, trattandosi al limite di un diritto da acquisire attraverso un percorso che implica la presa di coscienza. Semmai, quindi, costituisce un luogo aperto dove si incontrano e si raccordano esperienze, come ricordi di esperienze, tra di loro molto differenti e che tuttavia arrivano a trovare un comune denominatore, ossia un linguaggio condiviso, sulla base del quale si rinnova quel patto che sta alla radice del patriottismo repubblicano e costituzionale. Non è quindi la rivendicazione di una identità particolarista, di gruppo ma la necessità di riuscire ad andare oltre il recinto dei legami originari. Non per negarli bensì per negoziarli nel rapporto con gli altri. Da questo punto di vista, allora, la memoria è anche una questione che demanda a riflessi di ordine politico, poiché rinvia alle basi della convivenza tra persone, allo scambio tra soggetti diversi (per storia, idee, vite vissute e così via), alla ricerca di diritti condivisi senza che ciò che chiamiamo “identità” venga come tale tradito. La memoria, va aggiunto ancora, rimanda in ultima istanza alla coesione sociale, alla tenuta delle società non meno che alla loro natura democratica. Due questioni, queste ultime, all’ordine del giorno, poiché paiono assai meno certe di quanto non potesse risultare anche solo ancora qualche anno fa. Proprio in tale ottica, e non certo esclusivamente in omaggio ad una maniacale attenzione per un determinato passato, ci si è soffermati ripetutamente su fenomeni sociali come il negazionismo olocaustico. Poiché se ad esso guardiamo non per come vorrebbe presentarsi (una commistione tra diritto di libertà di parola, esercizio dialettico, contropotere intellettuale, ricorso al metodo “scientifico” e ricerca dell’altrui attenzione) ma per come realmente si manifesta (una mentalità sospettosa a prescindere, che trasforma il diritto al dubbio, laddove quest’ultimo sarebbe il sale della ricerca, in paradigma ossessivamente complottistico, applicandovi una lettura capovolta del significato delle fonti e cercando in tutti i modi di comprovare i propri assunti nel momento stesso in cui definisce infondato ciò che non coincide con essi), dobbiamo ritenere che lo spazio di amplificazione delle sue affermazioni non sia esaurito. In altre parole, potrebbe avere un qualche futuro, senza neanche doversi sforzare oltre misura. Le sue “fortune”, infatti, non sono ascrivibili all’inverosimiglianza di ciò che dice ma al come lo va facendo. In un sistema di comunicazione collettiva oramai cacofonico non conta tanto il contenuto di un’affermazione ma la sua carica dirompente, tanto più se sembra liberare energie, altrimenti compresse, attraverso il gioco dell’affermazione eclatante. Soprattutto laddove lo scetticismo generalizzato, che si trasforma in cinico rifiuto, è oggi una moneta corrente, nella crisi di trasformazione che le nostre società stanno vivendo e della quale un numero sempre maggiore di persone, e di famiglie, sono chiamate a pagarne il pegno. Il negazionismo intercetta una sorta di diffusa critica antisistema. Poiché dice che la storia, e con essa le memorie che ne fanno da corredo, costituiscono nel loro insieme un costrutto meramente ideologico, in quanto al servizio dei poteri esistenti. Questi ultimi sarebbero a loro volta dominati da gruppi di interesse circoscritti che, raccontando favole e fandonie per assoggettare la volontà altrui e svuotare quindi la collettività del rimanente spazio di autonomia decisionale, imporrebbero in tale modo le loro volontà assolute. La consonanza tra tale visione delle cose e il modo di presentarsi da parte di certuni che affermano di operare una sistematica e secca opposizione alle derive della contemporaneità, a volte risulta essere sorprendente. Il raccordo, da questo punto di vista, più che avvenire con la destra radicale, soprattutto quella di osservanza neonazista – che in Italia continua ad avere un seguito contenuto (o comunque contenibile) – si verifica piuttosto con alcune componenti della sinistra estrema, la cui identità ruota maniacalmente intorno ai cascami del conflitto israelo-palestinese e, soprattutto, con certe componenti del variegato universo populista che nel nostro Paese è andato determinandosi dal crollo della Prima repubblica in poi. Forse è su quest’ultimo piano che si potrebbero giocare gli effetti di un negazionismo, non più ideologico (ovvero strettamente debitore delle sue origini politiche, altrimenti molto connotate) bensì “diffuso”, quindi assai più spurio nelle sue formulazioni ma, proprio per questo, capace di acclimatarsi a trend socio-culturali ampi, di lunga durata. Dalla crisi della politica, dal collasso di una parte delle sue coordinate, deriva quindi uno spazio nuovo per i negazionisti. Tutto da verificare, nella sua concreta tangibilità e nella sua praticabilità. Ma senz’altro esistente, poiché il populismo non è solo la critica all’autoferenzialità dei cosiddetti «poteri forti» (e oscuri), ai quali si contrappongono soluzioni che cancellano le regole e le mediazioni, ma anche il terreno sul quale diventa più facile ricostruire la storia, e quindi il passato, secondo criteri di comodo. Non si tratta, in questo caso, di revisionismo, bensì di vero e proprio “reversionismo”. Atteggiamento che rimanda ad uno stile intellettuale per cui di quello che è stato nei tempi trascorsi non ci si assume la problematicità, la complessità e la stratificazione bensì solo ciò che può interessare sul momento. Conta il singolo “pezzo”, da prendere, esibire e usare a proprio beneficio. La storia si riduce a questa messa in scena. Già alcuni leader politici, con spiccate propensioni alla spettacolarizzazione scenica delle loro affermazioni, hanno rivelato di quale trama sia fatto questo modo di rapportarsi al passato come alla memoria di esso. Un modo ben più pericoloso di quanto non possa sembrare a chi volge a tali performance uno sguardo di superficie, frettoloso e di sufficienza. La logica che vi è sottesa, infatti, è quella che accompagna la pop-politica, dove tutto diventa intercambiabile, poiché qualsiasi affermazione può essere capovolta nel suo contrario e così via. Senza obbligo di razionalità alcuna, a parte l’ottusa riaffermazione dell’insindacabilità della propria posizione. Questa è la cornice nella quale un “nuovo” negazionismo potrebbe trovare un’insperata udienza. E qualche riscontro. Non perché la politica, ridotta a populismo, gli riconoscerebbe qualsivoglia fondamento (obiettivo in sé al quale non è interessata) ma in ragione del fatto che le retoriche, le pratiche discorsive, le ellissi pseudo-dialettiche di cui si alimenta chi afferma che è falso ciò che è avvenuto, possono risultare congeniali al fittizio anticonformismo di chi cerca di captare, raccogliere e capitalizzare il crescente disagio. Che sia sociale, economico ma anche culturale. Il tutto sotto l’egida dell’angoscia da espropriazione, per un oggi che sembra di difficile gestione ed un futuro che si presenta come ancora più problematico. Già si è avuto il modo di argomentare sul nesso diretto tra un habitat comunicativo e informativo qual è il web, così come la cybersfera, e visioni complottistiche del mondo. Il negazionismo ma anche la banalizzazione, che del primo è una sorta di parente non troppo distante, ci pongono quindi una sfida, che ci piaccia o meno. Essa non riposa in ciò che dichiarano di avere ad oggetto, ovvero l’inesistenza dello sterminio razzista o la sua irrilevanza storica ai fini di un giudizio morale. Come il campo del negazionismo non è quello degli studi storici, e non ha quindi a che fare con la storiografia, così quello della banalizzazione non è la dimensione etica da attribuire alla Shoah, fatto di cui peraltro fa strame. Semmai il punto è un altro: fino a quale punto potrà spingersi il tentativo di rompere il senso della condivisione di una storia che appartiene a tutti, decretandone invece l’irrilevanza e, quindi, l’estinzione in quanto “narrazione di parte”? Poiché se così fosse, mal ne deriverebbe non solo agli ebrei italiani ma anche e soprattutto a tutti gli italiani in quanto tali, in quanto cittadini. Come, non di meno, alla stessa cittadinanza repubblicana e democratica. Sì, la battaglia è senz’altro politica, a patto che si riconosca che la fisionomia di ciò che chiamiamo “politica” sta velocemente cambiando, trasformandosi in un territorio sempre più impervio, dove l’aggressione si sostituisce alla mediazione mentre al legittimo conflitto si sovrappone l’annientamento del “nemico”.
Claudio Vercelli
(8 gennaio 2017)