identità…

La Torà indica con la parola “discesa” il passaggio dei figli di Israele dalla terra di Kenaan alla terra d’Egitto anche prima che questa avvenga. Talvolta però il termine “scendere” viene sostituito dal termine “giungere” proprio in concomitanza con gli eventi.
Mentre prima della discesa Yaaqov e la sua famiglia sono pienamente consapevoli della discesa spirituale determinata dal passaggio in Egitto, una volta presi dagli eventi “dimenticano” la valenza discendente intrinseca nella discesa geografica.
Yaaqov e la sua famiglia sono pienamente consapevoli del pericolo che l’”egizianità” possa prendere il sopravvento e predispongono una preparazione all’esilio simbolicamente rappresentata da alcuni passaggi paradigmatici, per non perdere la coscienza di sé e della propria etica. Il rabbi Hanoch di Alexander dice che “…il vero esilio di Israele in Egitto era l’aver imparato a sopportarlo…”. In effetti l’esilio è soprattutto assuefazione e rassegnazione ad una condizione esistenziale e ad un modo di pensare nei quali non ci si rende neppure più conto di essere in esilio.
Mentre Yosef invia i suoi fratelli a tranquillizzare il padre sulla potenza materiale e politica acquisita, Yaaqov invia in Egitto il figlio Yehudà a predisporre un luogo di studio, indicando così che nessun ebreo può abitare fuori da Eretz Israel se prima non si assicura l’organizzazione di un’educazione ebraica permanente. Yaaqov conferma con questa scelta che la ricchezza del popolo ebraico si basa essenzialmente sulla Torà piuttosto che sulla potenza politica ed economica. Ma, perché Yaaqov affida questo incarico a Yehudà e non a Yosef che, dopo tutto, era già in Egitto ed essendo viceré avrebbe potuto, con i suoi grandi mezzi, costruire una scuola di Torà eccellente? Il commento Oznaim La Torà ci indica che chi si dedica allo studio della Torà deve essere legato alla Torà stessa, senza distrazioni di ordine “politico”. Ecco perché lo studio della Torà di Yosef non poteva essere sufficiente.
Una seconda rappresentazione di questa preparazione è quando Yosef raccomanda ai suoi fratelli: “Quando il Faraone vi chiamerà e vi domanderà: ‘Qual è la vostra occupazione?’, risponderete: ‘Uomini di gregge sono stati i tuoi servi dalla nostra gioventù fino ad ora’” (Bereshìt, 46; 33-34). Il Rabbì Ytzchak Aramà spiega questo verso in questo modo: “Ha scelto per loro la cosa buona e retta e ha reso loro odioso il potere, giacché non c’è dubbio che se avesse voluto li avrebbe nominati capi di migliaia e capi di centinaia sul regno, ma ha voluto che dicessero che essi sono pastori di gregge dalla loro infanzia, sia essi che i loro padri”.
Yosef si preoccupa subito del luogo di residenza dei propri fratelli e per giustificare la loro presenza lontano dai centri del potere ricorda il loro lavoro affinché possano vivere in Egitto mantenendo un comportamento ebraico. Yosef avrebbe potuto “piazzare” i propri fratelli nei più influenti centri di potere con vantaggi contingenti per tutti ma si preoccupa, invece, che vivano vicino al nucleo della comunità e che si occupino di una professione che permetta loro una vita ebraica.
Yosef vuole insegnare ai propri fratelli, alla vigilia di una schiavitù che farà del lavoro il simbolo dell’oppressione, che è possibile occuparsi ebraicamente del lavoro e della politica. Che il lavoro non è male in se, è male, viceversa, la parte di potere che è nel lavoro. È un richiamo alla sostanza e un ripudio dell’apparenza. Si deve amare il lavoro, non il biglietto da visita. Meglio essere un pastore realizzato e onesto che un ministro frustrato e corrotto.
La preoccupazione principale nelle nostre famiglie, nella valutazione della vita di un figlio a distanza di anni, ruota principalmente attorno a questa domanda: si è creato una famiglia e una condizione socio-economica rispettabile? La dialettica tra il nostro Patriarca Yaakòv e il figlio Yoséf, nelle parashòt di queste settimane in cui più volte Yaakov torna sulla domanda: “…mio figlio è ancora vivo…? “, ci ripropone un ulteriore e inquietante interrogativo: un ebreo che non si occupa di Torà è veramente vivo?

Roberto Della Rocca, rabbino

(10 gennaio 2017)