Le questioni importanti

Sara Valentina Di PalmaHo sentito in una breve derashà alla scorsa Parashat haShavua, Vayiggash, l’interpretazione di
וַיִּקְרָ֕א הוֹצִ֥יאוּ כָל־אִ֖ישׁ מֵֽעָלָ֑י (fate uscire tutti dal mio cospetto!”, come esclamò Yossef commosso dalle parole di Yehudà, il quale si era offerto schiavo al posto di Binyamin; Bereshit 45,1) nel senso di allontanare gli egiziani, ovvero i non ebrei, facendo restare i soli fratelli, ebrei, per un chiarimento atteso da ben ventidue anni. Come dire, le questioni importanti vanno affrontate prima di tutto in casa, in seno ad Am Israel, piuttosto che all’esterno.
Leggo in realtà numerose altre interpretazioni: ad esempio, secondo Rashì, Yossef fece uscire tutti per non mettere in imbarazzo, con la presenza di estranei, i fratelli, con cui comunque sarebbe stato duro (“Io sono vostro fratello Yossef, che vendeste all’Egitto!”, avrebbe ricordato loro; Bereshit 45,4) e che probabilmente “sarebbero stati confusi, quando egli si sarebbe fatto riconoscere da loro” (Rashi di Troyes, Commento alla Genesi, Marietti 1985, p. 373).
Oppure, allo scopo di allontanare i suoi numerosi servi (anch’essi mossi dalle parole di Yehuda), le cui suppliche sommate a quelle del fratello sarebbero state per Yossef un peso troppo gravoso da sostenere (Ramban secondo The Chumash: The Stone Edition, Mesorah Publications 1998, p. 253).
Dice il Midrash che “Rabbi Chama bar Rabbi Chanina e Rabbi Shmuel bar Nachmani discussero questo punto. Rabbi Chama disse: Yossef non agì con prudenza, perché se lo avessero colpito, sarebbe morto subito. Rabbi Shmuel disse: Agì in modo corretto e prudente. Sapeva che i fratelli erano giusti, e ragionò: ‘Non voglia il cielo! I miei fratelli non devono essere sospettati di spargimento di sangue” (Midrash Rabbà 93, 9).
Comunque sia, l’interpretazione che ho sentito lo scorso Shabbat pone la questione del rapporto tra privato e pubblico dell’immagine che vogliamo poter dare di noi stessi agli altri, e che mi era sovvenuta già due giorni prima, passeggiando per la mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo (Firenze, Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici-Riccardi, 20 dicembre-26 febbraio 2017). C’è qui infatti una ingombrante presenza e un’altrettanto assordante assenza, la prima quella del caso Cammeo, su cui la mostra ha il pregio di soffermarsi, la seconda quella della devastazione della rivista Israel.
L’ebreo tripolino Carlo Cammeo muore, a soli ventiquattr’anni, reo di aver scritto un paio di articoli antifascisti, in un agguato che vede come protagoniste, insieme ad alcuni squadristi, un gruppo di ragazze capeggiate dalla quasi sessantenne Mary Rosselli Nissim, figlia di Pellegrino Rosselli e di Janet Nathan (sorella di Hariet, andata in sposa a Sabatino Rosselli dal quale ebbe Joe, a sua volta sposo di Amelia Pincherle e quindi padre di Aldo, Carlo e Nello Rosselli). Mary era cresciuta nella casa dove Mazzini aveva trascorso i suoi ultimi anni, e dove ella stessa intrattenne con le sue musiche personalità del calibro di Toscanini e Puccini. Domenica 15 febbraio 1903 la stampa locale, nelle parole del settimanale Il ponte di Pisa, ci tramanda un affresco della sua vita: “Un mercoledì delizioso. Più di 150 persone accolsero l’invito della signora Mary Rosselli-Nissim, la signora intellettuale che prodiga agli ospiti il fascino della cortesia sua smagliante” alla presenza di svariate signore, contesse e marchese, nonché del sindaco, rettore, professori vari, assessori comunali e diversi membri dell’esercito (“Si ballò fino alle 19”).
Viva l’America, Francia e Inghilterra / Evviva l’Italia! Viva la guerra, scriveva Mary nei versi de Viva la santa alleanza di civiltà plaudendo la causa interventista. Da lì al nazionalismo fascista, per la compositrice cugina in secondo grado di Aldo (caduto in guerra), Carlo e Nello Rosselli (antifascisti assassinati in Francia da sicari inviati dal regime fascista), il passo fu breve.
Non vale la pena di soffermarsi sul fatto che Mary venisse poi accusata di correità in omicidio per il caso Cammeo, e poi prosciolta. Quel che colpisce, è piuttosto il fatto che “la comunità ebraica pisana – nonostante Cammeo sia un proprio iscritto – non prende posizione rispetto all’accaduto. La stampa ebraica toscana e nazionale non pubblica, come era abitudine fare in questi casi, la notizia della sua morte”, come riporta il catalogo della mostra stessa, curato dall’Istoreco e pubblicato da ETS.
Ben poca cosa forse rispetto ad un omocidio, allora, il silenzio della mostra, che pure stride, di un altro caso, quello fiorentino dell’irruzione nella sede della rivista Israel devastata da correligionari perché rea di una chiara impronta sionista, e quindi accusata di anti patriottismo. Proprio su Israel, l’8 settembre 1938 Dante Lattes z.l. aveva scritto parole ben diverse da quelle di altre riviste ebraiche, come la fascista La nostra bandiera fondata dall’ebreo torinese Ettore Ovazza (di cui mirabilmente ha scritto Alexander Stille in Uno su mille. Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo, Garzanti) a commento delle leggi razziste appena emanate: “E’ un dolore grande oggi quello degli ebrei d’Italia”.
Israel attacca duramente la dirigenza comunitaria ancora nel numero uscito poco prima di metà novembre, che denuncia come “Non possiamo tacere la nostra sfiducia in tutti coloro che sono ancora nell’ebraismo per inerzia e non per la conoscenza e la coscienza dei doveri…”, e ne paga le conseguenze: la sede tipografica in cui la rivista viene stampata subisce un assalto, che funge da comoda scusa per la soppressione del giornale su ordine prefettizio.
Grande coraggio, ebbe Dante Lattes a denunciare la scarsa coesione del mondo ebraico di fronte all’ignominia fascista, lasciando intravvedere un mondo ebraico che, al pari del resto del mondo italiano, era lacerato e conteso tra indifferenti, fascisti ed antifascisti, in quelle che furono le premessa per la futura guerra civile italiana (Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati-Boringheri 2006).
Chissà se Yossef aveva dispiegato davanti a sé il disegno divino, non solo come sappiamo della propria vicenda, da quando i fratelli lo avevano venduto, in modo che potesse andare in Egitto, affinché loro stessi vi arrivassero poi per riconciliarsi e portassero gli Israeliti, ponendoli al riparo dalla carestia. E oltre, perché il Signore volle che gli ebrei si stabilissero a Goshen dove poterono prosperare, perché poi il faraone li facesse schiavi, e Moshe li liberasse facendo di Kadosh BaruchHu il D-o della libertà, e del popolo di Israele colui che deve ricordare di essere stato schiavo in terra d’Egitto. Poteva forse Yossef vedere ancora oltre, fino al Galut, e poi ancora, attraverso millenni di esodi, viaggi, persecuzioni? Fino ad oggi? Potrebbe aver voluto far uscire tutti perché in quel momento i piani del Signore si dispiegarono davanti a lui per i millenni a venire, e vedere tutto questo fu troppo?
Più consolatorio, allora, pensare con Massimo Foa all’incontro di un uomo con i suoi familiari dopo due decenni di gelosia, astio, colpevolezza, rimorso, dolore: Giuseppe non poteva contenere / dinnanzi ai presenti l’emozione / e “Fate uscire tutti”, esclamò. / Così quando riconoscere si fece / dai suoi fratelli, nessuno restò (Torah in rima. I primi cinque libri della Bibbia, Accademia Vis Vitalis Editore 2011, p. 77).

Sara Valentina Di Palma

(12 gennaio 2017)