Nazionalismo
Riportavano qualche giorno fa alcuni siti di informazione ed il quotidiano La Stampa una notizia solo apparentemente minore: a quasi vent’anni dal conflitto in Kosovo (il quale, concordo con l’analisi di Alessandro Marzo Magno, fa parte in realtà della lunga “guerra dei dieci anni” di dissoluzione della Jugoslavia), il nazionalismo tra serbi ed albanesi si riaccende sul treno che, per la prima volta, dovrebbe costituire un collegamento diretto tra Belgrado e Mitrovica Nord – ovvero la parte a maggioranza serba della città kosovara rigidamente divisa, come nella maggior parte delle città jugoslave del dopoguerra, su linee nazionali innaturali segnate da confini naturali, spesso fiumi come in questo caso.
Il treno avrebbe anche potuto viaggiare senza destare sospetti, non fosse stato che per l’idea, di per sé un po’ kitsch ma in questo caso anche provocatoria, di dipingerlo con i colori della bandiera serba all’insegna dello slogan “il Kosovo è serbo” – concordemente, l’interno risulta allestito con riproduzioni delle principali chiese ortodosse in Kosovo. Fatto sta che la corsa del treno è stata momentaneamente sospesa a Raska, a ridosso del confine, per ordine del presidente kosovaro Hashim Thaçi, il quale ha parlato di provocazione nazionalistica contraria alla costituzione, mentre a Mitrovica i serbi sono scesi in piazza protestando per il suo mancato arrivo ed in Serbia qualcuno già parla di riportare l’esercito nella regione.
Sarà che in questi giorni penso molto a treni e ferrovie, complice una mostra sul viaggio di deportazione nei campi di sterminio nazisti cui sto lavorando con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, e che sarà inaugurata in città il prossimo Giorno della Memoria in piazza San Francesco, all’interno di un vagone ferroviario dell’epoca.
Sarà che la scorsa settimana sono stata alla Spezia a conversare sugli stupri perpetrati soprattutto dai serbi nei confronti di donne musulmane bosniache nella guerra di dissoluzione della Jugoslavia, mentre veniva presentato un progetto di cooperazione tra i gruppi diversi nazionali bosniaci ideato dalla cooperativa agricola Insieme, la quale produce confetture e succhi di frutta nella zona di Bratunac, dove provocatoriamente i serbo-bosniaci hanno per anni rievocato i propri morti marciando all’insegna di bandiere cetniche con scritto “Nož, žica, Srebrenica” (coltello-filo spinato-Srebrenica) negando il genocidio di Srebrenica e presentandosi come le vere vittime della guerra – a pochi chilometri da Potočari dove sono sepolte le vittime del genocidio stesso perpetrato dalle truppe serbo-bosniache in quella che doveva essere una zona protetta sotto il controllo delle Nazioni Unite, e dove invece l’11 luglio 1995, dopo aver separato donne, bambini ed anziani, oltre ottomila musulmani dai 14 ai 78 anni furono massacrati e sepolti in fosse comuni.
Insieme lavora per favorire il ritorno dei profughi e la faticosa convivenza di famiglie serbo-bosniache e bosniaco-musulmane attraverso la coltivazione di frutti di bosco ad opera di persone che (non a caso, penso) sono soprattutto donne, molte delle quali direttamente colpite dal genocidio. Il programma pilota portato avanti dalla cooperativa, “lamponi di pace”, ha infatti l’ambizione, attraverso la riconciliazione femminile, di rompere il muro di odio istillato dal nazionalismo prebellico, cementato dalle violenze di guerra e portato avanti dai nuovi nazionalismi del dopoguerra.
Per ora il progetto sembra funzionare, nonostante l’ostilità del governo della Republika Srpska (abitata in prevalenza da serbo-bosniaci) il quale, coerentemente con la costruzione politica del nazionalismo serbo dopo la morte di Tito attraverso l’uso di metafore corporee (il corpo della nazione violato dal corpo del nemico) e la propaganda basata sulla (falsa) accusa di stupri perpetrati nei confronti di suore serbe in Kosovo, non ha operato adeguatamente per garantire alle donne il diritto alla proprietà ed al ritorno nelle loro case, non ha implementato la reintegrazione socioeconomica dei sopravvissuti e non ha riconosciuto adeguata protezione sociale alle vittime di violenza domestica, in una società dove questa è cresciuta a causa del mancato reinserimento dei veterani e della loro riconversione in civili.
Il treno, appunto, era stato scelto da Slavenca Drakulić come simbolo per il suo reportage Balkan Express, saggio il quale già nel 1993 aveva raccolto storie scritte dall’inizio di una guerra che ha privato l’autrice della sua individualità di donna e di studiosa, riducendola alla sola appartenenza nazionale. Chi, come lei, in nome di un femminismo transnazionale non accettava la retorica patriottica, è stata derisa, umiliata, costretta al silenzio prima ed all’emigrazione poi. Le streghe, le chiamavano sprezzantemente in Croazia, accusandole di tradimento, lei insieme a Dubravka Ugrešić e Rada Iveković, Jelena Lovrić e Jasmina Kuzmanović, traditrici e nemiche pubbliche perché non sostenevano il fanatismo nazionalista di Tuđman rivendicando anzi il loro diritto di essere prima di tutto donne pacifiste, contrarie alla retorica della buona madre volenterosa di sacrificare i propri figli per la patria. Con loro, altre donne come il Network delle donne della Ex Jugoslavia o le Donne in Nero di Belgrado. E di nuovo nel dopoguerra, loro insieme ad altre donne hanno denunciato come la memoria pubblica collettiva sia di nuovo soprattutto maschile e patriarcale, volta a fomentare il nazionalismo anche attraverso la guerra dei numeri sulle vittime di stupro, in una gara all’autocommiserazione vittimista in cui ogni gruppo gonfia le cifre delle proprie donne stuprate per farne uno strumento di rivendicazione contro l’altro – senza al contempo proteggere le testimoni che con grande coraggio hanno deciso di prendere parte ai processi ai criminali di guerra, dare spazio alla narrativa femminile, creare adeguati programmi sociosanitari e pensionistici per le vittime.
Sono ancora donne, come quelle del Centar za Žene Žrtve Rata (Centre for Women War Victims), ad occuparsi della violenza di genere nel conflitto indipendentemente dalla nazionalità delle vittime, sono donne a creare i primi gruppi di ascolto per le vittime di violenza per cercare di reinserire le narrative marginalizzate nella memoria collettiva ed al contempo di demolire lo stereotipo della vittima passiva mostrando la reattività femminile nel dopoguerra, con la nascita di gruppi femminili volti a migliorare le condizioni di vita a livello locale come ad esempio Medica Zenica, che si dichiara femminista ed anti nazionalista, o la cooperativa Insieme sopra ricordata.
Contro il silenzio, lo sfruttamento degli stupri nella guerra di dissoluzione della Jugoslavia, le distorsioni della memoria, dunque, ci sono donne, a cercare di trovare una voce per quelle violentate su cui spesso ricade lo stigma della violenza, come se fossero complici di quanto accaduto loro: “Ricordo la prima vittima [di stupro] con cui ho parlato […] voleva raccontare – ma non riusciva a parlare di quanto le era accaduto…era scossa da tremiti. Ho quindi capito per la prima volta che la sua storia si trovava proprio in quello che non riusciva a dire” (Slavenca Drakulić nell’introduzione dell’edizione inglese di Come se io non ci fossi, Rizzoli 2000, qui S. A Novel About the Balkans, Penguin Books 1999, pp. 3-4).
Parlare, per chi voce non ha, come in E il topo rise di Nava Semel, che attraverso la sovrapposizione di generi narrativi diversi, dalla poesia al diario, prova a rompere un altro grande silenzio ovvero quello sugli stupri, durante la Seconda guerra mondiale, di donne ebree (qui una bambina in realtà, nel caso del romanzo, per mano di chi aveva su di lei potere di vita e di morte tenendola nascosta in una buca sottoterra per denaro e poi decidendo di ucciderla). O come ne La baracca dei tristi piaceri di Helga Schneider, racconto sulle prigioniere dei lager nazisti destinate ai bordelli per le SS all’interno dei lager.
“Una strana sensazione di urgenza la coglie come un colpo sparato da un cecchino. […] Non può concedersi che la storia svanisca come se non fosse mai accaduta” (E il topo rise, Atmosphere libri 2012, p. 5).
Sara Valentina Di Palma
(19 gennaio 2019)