Venezia – Memoria, il ruolo del ricordo
“La Memoria non è questione di un giorno ma faccenda di tutti i giorni, la Memoria è la nostra coerenza senza di essa siamo nulla”. Queste le parole del Presidente del consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, intervenuto ieri mattina in occasione del Convegno a Palazzo Ferro Fini ‘Il Veneto, l’Ebraismo e la Shoah: una riflessione verso il Giorno della Memoria’. Presenti all’evento tra i relatori Paolo Gnignati, presidente della Comunità ebraica di Venezia, David Romanin Jacur, presidente della Comunità ebraica di Padova e consigliere UCEI, il presidente del Fondazione Giorgio Perlasca, Franco Perlasca, il presidente della Comunità ebraica di Verona, Bruno Carmi e la consigliera della Comunità ebraica di Venezia e consigliera UCEI Sandra Levis.
“La riflessione sulla Shoah dev’essere questione quotidiana – ha affermato Ciambetti – condivido le preoccupazioni di chi vede delinearsi nella nostra società una singolare tendenza all’oblio e un certo professionismo della memoria, retorica vana che inquina le celebrazioni ufficiali. L’unico modo per combattere l’oblio e la retorica è di contrastarli con una forte azione culturale”.
Il presidente Ciambetti ha voluto ricordare chi si oppose al male sia in ambito veneto con nomi di spicco come Giorgio Perlasca, sia in ambito nazionale con 671 italiani riconosciuti come Giusti tra le nazioni.
Molti sono però i casi ancora da scoprire come quello di Aldo Bon, poliziotto ferroviario, che nascose a Venezia nel sestiere di Santa Croce Giovanni Ferrari e Rina Cesana a rischio della vita. Mirko Ferrari, figlio della coppia salvata, ha incontrato proprio a Palazzo Ferro Fini il figlio di Aldo Bon, Aurelio. Da una parte chi mise a repentaglio la sua vita per salvare i perseguitati e dall’altra i delatori, anche veneti, che per convenienza e profitto denunciarono e consegnarono gli ebrei ai loro aguzzini. Italiani di religione ebraica considerati nemici della patria.
“Oggi per fortuna – ha affermato il presidente Gnignati – l’Idea di Europa è un’ancora a cui gli ebrei si sentono fortemente uniti: ci sentiamo infatti ebrei, veneziani, veneti, italiani ed europei e sentiamo che le diverse appartenenze sono ricchezze da difendere e preservare nell’interesse di tutti. Ieri come oggi, preservare il tessuto sociale e la Tradizione di cui Venezia ed il Veneto sono portatori garantendo a ciascuno, come la Costituzione ci impone, adeguata dignità sociale ed assieme coltivare la capacità dei singoli gruppi che compongono la società di convivere pacificamente con la differenza degli altri gruppi nuovi o vecchi che siano è l’unica strada che possiamo seguire per impedire che prevalga la paura e la chiusura che di essa è figlia, e quindi la dissoluzione del tessuto che deve tenere uniti noi tutti”.
A Venezia furono 244 gli ebrei deportati che non hanno fatto ritorno e tra essi il Rabbino Capo Adolfo Ottolenghi, deportato assieme ai vecchi della Casa di Riposo prelevati ed inviati a morire ad Auschwitz nel 1944. L’ultima seduta del Consiglio della Comunità registrata si era tenuta nel luglio 1943 la prima dopo il vuoto nel maggio 1945, con una riunione dove oltre a dare atto della fine della guerra, si commemora il Presidente Jona, rimasto a Venezia anche dopo la presa di potere dei Tedeschi e morto suicida il 16 settembre. Di quel Consiglio faceva parte, tra gli altri, anche il Prof Gino Luzzatto, grande storico dell’economia ed illuminato Rettore di Ca’ Foscari nel dopo guerra, che era stato cacciato dall’insegnamento a seguito delle leggi razziali.
L’atto estremo del professor Jona viene ricordato dagli ebrei veneziani superstiti non solo per il valore in sé di eroica resistenza ad ogni forma di collaborazione con i nazifascisti in danno degli ebrei Veneziani, ma anche perché permise a molti Veneziani di comprendere la gravità e l’imminenza del pericolo che su di essi incombeva e quindi di realizzare che l’unica via di salvezza rimasta era ormai la fuga.
Infatti, a neppure tre mesi di distanza dal suicidio di Jona, nella sera del 5 dicembre, dopo appena cinque giorni dall’ordine di carcerazione e di sequestro dei beni degli ebrei emanato dal Ministro Buffarini Guidi, ebbe luogo il primo rastrellamento di ebrei a Venezia che avrebbe portato all’arresto di “163 ebrei puri di cui 114 donne e 49 uomini”.
La tragedia contrapposta alla eclatante normalità del concerto di Arturo Benedetti Michelangeli, che aveva suonato al Teatro La Fenice la sera stessa del rastrellamento, come se la vita culturale della città, dalla quale gli ebrei erano stati estromessi, dovesse continuare come nulla fosse accaduto, come se la presenza di una componente storica del tessuto cittadino non fosse stata inevitabilmente cancellata.
Una storia, quella degli ebrei nel Veneto, che Davide Romanin Jacur, portando i saluti del presidente UCEI Noemi Di Segni, ha voluto ripercorrere partendo dalle prime presenze documentate già in età romana, ai primi insediamenti in Laguna tra XI e XII secolo, alla nascita del Ghetto di Venezia nel 1516 passando per l’avvento dei francesi, la cessione del Veneto agli austriaci con il trattato di Campoformio fino alla seconda guerra mondiale e al nazifascismo.
La Shoah condusse alla morte 6 milioni di ebrei in Europa, di cui 3 milioni solo in Polonia. In Italia, pur con orrore i numeri furono più ridotti, circa il 17% della popolazione ebraica 8000 persone su 46600 ebrei italiani. Le ragioni di questo dato sono molteplici: “La deportazione in Italia – ha spiegato Romanin Jacur – iniziò solo nel ’43 in ritardo di quasi quattro anni rispetto all’occupazione tedesca delle altre nazioni. Inoltre tra le emanazione delle leggi razziali nel ’38 e il ’43 molti ebrei italiani avevano preso coscienza del pericolo ed erano riusciti a scappare o a nascondersi in qualche maniera. In Italia ci fu poi un consistente aiuto, specialmente da parte della popolazione non cittadina, proprio nelle campagne venete sono molti casi di istituti ecclesiastici che, spesso in contrasto con il Vaticano, si spesero per salvare e nascondere cittadini di origine ebraica”.
Di recente gli storici hanno lamentato la scarsa rilevanza riservata verso coloro che coadiuvarono la caccia, l’internamento e il trasporto dei deportati. La politica italiana postbellica infatti fu totalmente orientata a stendere un velo sul passato e a riciclare velocemente anche le persone che si erano macchiate di crimini presentando lo stereotipo degli “italiani brava gente”, nonostante tra di essi ci fossero gli stessi che sottoscrissero ad esempio il manifesto della razza. L’Italia non ha mai voluto riconoscere le proprie colpe, né fare un vero esame di coscienza, il pericolo attuale è che ciò che non si è digerito e analizzato, ciò che non si è voluto che fosse studiato e conosciuto poi torni drammaticamente a presentare il conto.
“Il popolo ebraico – ha continuato il presidente Romanin Jacur – rappresenta il canarino dell’umanità nella miniera della storia. Ciò che è accaduto al popolo ebraico è un allarme per l’intera società che sta sperimentando ora cosa voglia significare essere sotto tira da parte di chi la odia aprioristicamente. La Giornata della Memoria può continuare ad avere senso ed utilità culturale solo se, messe da parte le emozioni in favore della razionalità, vengono spiegate le ragioni storiche, sociologiche che portarono al disastro. Dobbiamo imporci di capire, senza nascondere la testa sotto la sabbia, senza rifiutare le responsabilità e ricordando insieme quanti seppero dire di no. E’ essenziale che la morte di tante persone possa essere di insegnamento per la vita di tante altre, per la costruzione di una società che si sappia difendere da ogni sopruso per dare un senso compiuto a parole come comprensione, tolleranza, inclusione”.
Michael Calimani
(26 gennaio 2017)