Levi Papers – Flesch
Flesch compare all’improvviso: “Si fa avanti uno fra noi che non ho mai visto, si chiama Flesch; sarà lui il nostro interprete”. Siamo nel capitolo “Sul fondo” di “Se questo è un uomo”. È uno dei tanti personaggi di quel termitaio gremito che è il Lager. Sappiamo che è tedesco. Levi descrive la sua bocca. Meglio, il modo con cui escono le parole dalla sua bocca: amare. Nella edizione del 1947 compare solo due volte. Poi non si saprà nulla di lui. Nel 1958 Levi inserisce un foglietto di carta dove Flesch torna a parlare. Sono sette righe appena, che vanno introdotte a pagina 23 della prima edizione De Silva, al secondo capoverso. La frase aggiunta suona così: “Questo Flesch, che si adatta molto a malincuore a tradurre in italiano frasi tedesche piene di gelo, e rifiuta di volgere in tedesco le nostre domande perché sa che è inutile, è un ebreo tedesco sulla cinquantina, che porta in viso la grossa cicatrice di una ferita riportata combattendo contro gli italiani sul Piave. È un uomo chiuso e taciturno, per il quale provo un istintivo rispetto perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi”. Ora sappiamo chi è Flesch. Un ebreo tedesco. Ha anche una grossa cicatrice, perché ha combattuto contro gli italiani sul Piave. Nelle aggiunte del 1958 questo è il secondo tedesco “buono”, ex combattente nella Prima guerra mondiale, che compare. L’altro è Steinlauf, nel capitolo totalmente nuovo e aggiunto: “Iniziazione”. Ha la medesima età: cinquant’anni; ha combattuto nell’esercito austro-ungarico, ed ha avuto una croce di ferro. Sono due personaggi che assumono un significato nuovo, dal momento che, come le S.S., sono tedeschi, per quanto ebrei. Con Flesch e Steinlauf i ritratti del termitaio del Lager si ampliano. SDue tedeschi in più, accanto alle figure degli aguzzini e a quelle dei chimici della Buna. Due tedeschi deportati, prigionieri. Un altro tedesco lo troveremo alla fine del libro, in “Storia di dieci giorni”: Thylle, il triangolo rosso, un politico, comunista, che si trova nel Lager da dieci anni, uno che ha appartenuto all’aristocrazia del campo. Lui si metterà a piangere nella prima notte di libertà e intonerà sottovoce l’“Internazionale”. Flesch è la bocca, il traduttore: “a malincuore”. Lui sa cosa è utile e inutile dire nel campo. A lui va l’istintivo rispetto di Levi: “perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi”. Un’acuta riflessione psicologica: Primo ha percepito la sofferenza di Flesch, che anticipa la sua e quella dei compagni. Lui sa e patisce. La descrizione è secca e scarna: “un uomo chiuso e taciturno”. Un’informazione che arriva a posteriori, nel foglietto aggiunto. Perché prima Levi non lo conosceva, non sapeva chi era. Come sa che Flesch ha quel carattere, se lo vede ora per la prima volta? Perché Primo Levi possiede la grande capacità di capire al volo i caratteri delle persone. Ma c’è anche dell’altro. Ha ripensato ai personaggi del suo libro, ai compagni del Lager a distanza di tempo. Quelle caratteristiche –“chiuso e taciturno” – si sono addensate nella sua memoria nell’arco di tempo che è trascorso tra il 1946 e il 1955, quando ha consegnato a Einaudi il libro con le aggiunte e varianti. Memoria elaborativa, possiamo definirla, che usa lo strumento della scrittura, della letteratura per estendersi. Flesch è un personaggio che ritorna ancora in altri due luoghi dell’opera di Levi. Nell’adattamento radiofonico di Se questo è un uomo del 1962 e nella versione drammatica scritta in collaborazione con Pieralberto Marché del 1966. Nel testo per la radio Flesch è nel vagone con il Narratore e con Alberto, e poi lo ritroviamo nel Lager. Nella versione portata in teatro figura addirittura nell’elenco iniziale come uno dei venti principali personaggi della messa in scena. L’ebreo tedesco chiuso e taciturno reca le parole tedesche pronunciate alla parte dei deportati. Un interprete, un uomo della soglia anche lui.
Marco Belpoliti, scrittore
(29 gennaio 2017)