Un Giorno e un anno
Anche quest’anno il Giorno della Memoria è trascorso. Ed è un pensiero, per certi aspetti, al limite dell’inconfessabile. Infatti lo si tiene per sé, guardando l’agenda e ben sapendo che essa non si esaurisce intorno alla data del 27 gennaio, trattandosi piuttosto, per chi da sempre è impegnato sui temi fondamentali che si accompagnano a questa fondamentale ricorrenza del calendario civile europeo, una sorta di continuum. Semmai, è l’affollamento di cose da fare che un poco si dirada. Mentre le cose da dire aumentano in misura considerevole di anno in anno. Un segno di vitalità, a ben guardare. Anche se c’è il timore che l’inflazione di sollecitazioni, rivolte ad un pubblico non sempre in grado di trasformarle in coscienza (del passato, laddove però questo serve a comprendere meglio il presente; altrimenti il tutto rischia di trasformarsi nella comunicazione di parole vuote e inerti), possa rivelarsi non solo vanificante delle buone intenzioni ma anche tendenzialmente dannosa. Nel senso che potrebbe trasformare lo sforzo di comprensione attraverso l’immedesimazione in qualcosa di molto diverso, ben più prossimo alla ricerca di una sorta di esperienza virtuale fine a sé, quasi che anche in questo caso la storia possa essere “rivissuta” come un videogioco. La legge 211 ha peraltro formalizzato e concorso ad istituzionalizzare il già ampio insieme di attività che la società civile andava da diverso tempo svolgendo a favore della memoria e contro il pregiudizio. Ciò facendo, le amministrazioni pubbliche, il mondo della politica e il vasto circuito di enti che fanno capo allo Stato ne hanno riconosciuto definitivamente il valore civile. Non si tratta di un risarcimento morale rispetto ai torti subiti, questione che non si pone nella logica di una coscienza civile, essendo piuttosto un riconoscimento. Quest’ultimo va inteso nel senso di uno sforzo di attribuzione di rilevanza della cognizione critica del peggiore passato nella formazione di una cittadinanza democratica. Rimangono, a tutt’oggi, due target privilegiati, ossia la scuola (formazione) e la comunicazione (informazione). Detto questo, quanto tutto ciò, dal 2001 in poi, si sia effettivamente tradotto in una maggiore coscienza e consapevolezza tra la collettività, non solo italiana ma anche europea, è tuttavia difficile dirlo con assoluta certezza. Di certo si parla in misura e proporzioni molto più ampie che nei decenni trascorsi delle deportazioni e della Shoah. Non sempre, tuttavia, la quantità è indice di pari qualità, benché rimanga il fatto che se si voleva raccogliere interesse, ciò si è verificato. Non di meno, la coscienza, sia individuale che collettiva, non dipende esclusivamente dalla proporzione crescente di informazioni di cui si alimenta ma dalla sua capacità di elaborarle criticamente, così come dalle condizioni in cui tale impegno viene profuso. Non si tratta solo di opinioni, cognizioni e sentimenti occasionali ma anche e soprattutto di atteggiamenti ripetuti nel tempo, non meno che di concezioni profonde dei rapporti sociali, che derivano dal modo in cui viviamo le situazioni concrete nelle quali ci troviamo ad interagire, relazionandoci quotidianamente con gli altri. Essere antisemiti, così come il divenire “razzisti”, in buona sostanza, non implica necessariamente il coltivare una natura malvagia o, ancor più, l’essere disinformati su qualcosa o qualcuno. Non infrequentemente l’avversione di principio è capace di formulare solidi argomenti (ancorché fallaci ad un riscontro critico) per motivarsi come “visione del mondo” basata sul rifiuto di ciò che viene concepito e identificato come non solo genericamente “diverso” ma anche estraneo e pericoloso. L’antisemitismo e le tante modalità con le quali si manifestano i razzismi indicano quindi la disposizione d’animo a reagire a certe sollecitazioni usando specifici codici basati sul pregiudizio. I quali, a loro volta, dipendono sia dalla cultura di riferimento sia dal modo in cui ognuno di noi vive il suo tempo e ciò che esso gli riserva come opportunità ma anche in quanto insieme di vincoli. In parole povere: la pedagogia sociale è indispensabile ma la costruzione di un carattere collettivo antiautoritario, unico antidoto al ripetersi delle tragedie della storia, deve confrontarsi sempre con le reali condizioni di vita delle persone. Se queste sono costantemente frustrate nelle loro aspettative, se vengono offese nella speranza di un futuro, se rimangono al palo, il rischio è che la percezione che hanno della loro marginalità si trasformi, ancora una volta, in risentimento e, quindi, in avversione contro qualcuno o qualcosa, destinati a fungere da capri espiatori. La lotta contro l’imprenditoria politica del razzismo, i partiti e i movimenti che usano l’odio a proprio beneficio, le agenzie e i soggetti della diffidenza sociale che si fa paranoia collettiva, deve quindi concentrarsi su molti piani. Da quelli più strettamente culturali a quelli legati ad una giustizia sociale reale e non solo di facciata. Altrimenti tutto potrebbe rivelarsi inutile. Meglio quindi risparmiarsi le fatiche di Sisifo o l’improbo esercizio di chi vorrebbe svuotare l’oceano con il cucchiaino, sapendo semmai che ricordare vuole dire non solo commemorare i trascorsi ma soprattutto elaborare un senso condiviso del presente. La qual cosa rimanda alla necessità che la coscienza civile sia anche un fatto politico a tutto tondo, dove il fuoco del confronto sta nella concretizzazione dei diritti e nella loro reciprocità con il grande tema del senso della responsabilità nella reciprocità. Si salvano le democrazie partecipate, non quelle formalistiche, prematuramente incartapecorite nel vuoto di parole che riecheggiano come moniti senza sostanza. Si apre in questo caso un fondamentale spazio di riflessione, per evitare che la memoria del passato si trasformi in un manufatto ideologico facilmente manipolabile. C’è senz’altro un rischio di eccesso in alcuni continui richiami ad Auschwitz. Già è capitato di sostenere che se “tutto è Auschwitz, Auschwitz rischia di diventare nulla”: è un modo per dire che se ogni evento del presente è non solo comparabile (attività in sé del tutto legittima sul piano intellettuale e della ricerca) ma parificabile allo sterminio su scala industriale, allora la specificità dell’evento Shoah si perde completamente. Specificità, non unicità. C’è infatti una retorica del “mai più!” o del “dovere della memoria” che, nel momento stesso in cui si manifesta, rischia di rivelarsi impotente e, quindi, controproducente. Intorno a ciò entrano in gioco altri fattori: la monumentalizzazione (fare del passato una sorta di totem, che si frappone ad ogni visione dialettica del presente, diventandone una sorta di ossessivo filtro); la sacralizzazione (trasformare lo studio, la ricerca e la comprensione di quel passato in una specie di fatto metastorico, una tragedia totale ai limiti della inesplicabilità) ma anche la banalizzazione (Auschwitz, e tutto quello che gli ruota intorno, come una specie di fatto che si ripete all’infinito in altre tragedie); la sentimentalizzazione (ossia l’immedesimazione acritica e astorica, ai limiti dell’innamoramento, nei confronti delle vittime, salvo il revocarne l’interesse quand’esse dovessero comportarsi diversamente dalla condizione di “vittime eterne”, predestinate a recitare quel ruolo per sempre) nonché la negazione (laddove si afferma che ciò che è avvenuto non è mai capitato, trattandosi di un falso costruito a tavolino). C’è quindi un problema di buon uso della memoria e, non di meno, di ricorso alla storia, non solo come disciplina ma soprattutto in quanto metodo di indagine e comunicazione dei suoi risultati supportati dal ricorso a protocolli di risconto e da codici condivisi. Un fatto distante dall’approccio meramente emotivo e sensazionalistico, quindi occasionale e superficiale, che certuni, invece, sembrano prediligere. Per questo è inconfessabile il dire che il Giorno della Memoria sia finito. Semmai inizia il 27 gennaio di ogni anno, per proseguire nel trecentosessantaquattro giorni successivi.
Claudio Vercelli
(29 gennaio 2017)