Mattarella premia la Morà Alatri
“Io sul Colle, che emozione”
Novanta anni portati splendidamente, Emma Alatri è per tutti “la Morà”. Storica insegnante e direttrice della scuola ebraica romana, un punto di riferimento per le diverse generazioni cresciute a partire dall’immediato dopoguerra alla scuola elementare Vittorio Polacco. Oggi, nel Palazzo del Quirinale, la Morà Emma riceve dalle mani del presidente Sergio Mattarella l’onorificenza al merito della Repubblica italiana. Riconoscimento che il capo dello Stato ha voluto conferire in novembre a quaranta uomini e donne che si sono distinti in atti di eroismo, per il loro impegno nella solidarietà e nell’integrazione, in azioni di soccorso, per la loro attività in favore dell’inclusione sociale, la promozione della cultura, della legalità e del contrasto alla violenza. In particolare, sottolineava Mattarella, Emma Alatri “ha trasmesso ai suoi allievi l’amore per la libertà e il senso di appartenenza alla comunità nazionale”.
Diplomatasi nel 1944 in una sezione speciale per perseguitati politici e razziali, Alatri ha insegnato alla scuola Polacco dal 1945 al 1979 e ne è stata direttrice per otto anni. È stata inoltre in prima fila nella ricostruzione comunitaria dopo la Shoah, e ancora oggi sono in tanti a contattarla per un consiglio, un’impressione, una sua valutazione. Ha raccontato ai nostri lettori in uno speciale approfondimento uscito su Pagine Ebraiche: “Centinaia di telefonate e messaggi di ex allievi dal giorno in cui questo riconoscimento è diventato pubblico. Una dimostrazione di affetto che ho trovato eccezionale e che mi ha letteralmente commossa. Se penso che mi hanno cercato persino dagli Stati Uniti, dalla Florida…”.
Riproponiamo di seguito la sua intervista:
“Beh, che dire. Sono lusingata, ma anche sbalordita. Non me l’aspettavo proprio… d’altronde come immaginarsela una cosa così! Devo ancora riprendermi”. Emma Alatri fa una smorfia, allarga le braccia. Il marito Gino, 94 anni splendidamente portati come la moglie con i suoi 90, sorride. “Centinaia di telefonate e messaggi di ex allievi dal giorno in cui questo riconoscimento è diventato pubblico. Una dimostrazione di affetto che ho trovato eccezionale e che mi ha letteralmente commossa. Se penso che mi hanno cercato persino dagli Stati Uniti, dalla Florida…
Ci dicono che il legame con i suoi ex allievi in realtà non si è mai interrotto…
Sì, è vero. Molti “ragazzi” li sento piuttosto assiduamente. E spesso ci vediamo pure. Ad esempio l’altra sera siamo stati tutti insieme a cena per festeggiare questa notizia. Ci siamo divertiti un sacco. Tanti ricordi di quella scuola che fu per molti una palestra di vita.
Cosa aveva di speciale?
Non c’erano soldi, c’erano pochissime risorse, c’era una povertà largamente diffusa. Ma c’era anche un entusiasmo contagioso. Tanta voglia di ripartire dalle macerie, tanta voglia di ricostruire dopo essersi lasciati alle spalle gli orrori e le ferite del nazifascismo. Ce la cavavamo con poco, aiutandoci tutti con grande altruismo e generosità. Ricordo ad esempio le meravigliose sere del Seder, la cena pasquale. La direttrice faceva le nottate per preparare le portate, noi
insegnanti facevamo i turni per apparecchiare la grande tavola, le bidelle sistemavano i carciofi. Una coesione davvero magnifica.
Come arrivò alla scuola Vittorio Polacco?
Dopo il diploma, raggiunto nel 1944 in una sezione speciale per perseguitati politici e razziali. Una vera e propria corsa contro il tempo, studio matto e disperato in pochi giorni per arrivare al traguardo. Ottenuto il diploma, mi presentai alla scuola. Non c’era un posto fisso libero, si potevano fare soltanto delle supplenze. Per un anno fui così impiegata al Keren Kayemeth LeIsrael, portando avanti appunto alcune supplenze, fino alla chiamata che avrebbe cambiato la mia vita. Era la scuola Polacco: “Si è aperta una possibilità d’impiego, ti aspettiamo”.
E fu così che diventò insegnante…
Esatto, per rimanerci fino al 1979. Quell’anno smisi, per un bel po’. Fino al 1988, quando fui scelta come direttrice. Non era una cosa che desideravo, fu il rabbino Elio Toaff a convincermi. Non volevo mettermi una spanna sopra le mie colleghe, ma lui mi persuase con queste parole: “Di fronte a una mitzvà, un dovere, un ebreo non può mai tirarsi indietro”. Sono iniziati così otto anni in questa nuova veste. Un periodo straordinario, che mi sono goduta fino in fondo. Anche grazie a un team fantastico di colleghe che mi ha supportato.
Gino si inserisce nel dialogo: “E due parole su tuo marito?”
Giusto, come vi siete conosciuti?
Erano passate poche ore dalla Liberazione. C’erano ancora pericoli, ma noi ebrei romani avevamo troppa voglia di vivere. E fu così che, dopo un’indicazione arrivata velocemente a tutti, ci ritrovammo nel centro giovanile che aveva sede in via Balbo. Avevamo un ardente desiderio di respirare la libertà. C’ero io, e c’era anche Gino. Fu là che inizio la nostra storia, il nostro lungo cammino insieme.
Come scampò alle persecuzioni nazifasciste?
Siamo stati molto fortunati, perché un avvocato amico di famiglia ci avvertì per tempo delle retate. In pochi minuti siam partiti e usciti di casa. Da Porta Pia siamo andati fino a S.Agnese e abbiamo iniziato a bussare alle porte di vari conventi. I risultati sperati non sono però arrivati, tanto che la sera siamo andati a dormire da un vicino di casa. In seguito il Convento Notre Dame De Sion accettò di ospitarci. A marzo, per questioni di sicurezza, ci siamo trasferiti in una casa privata di amici. Ogni giorno sognavamo la libertà. Che finalmente a giugno arrivò.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(1 febbraio 2017)