Predrag Matvejevic: “Il pane ebraico
salverà l’anima delle due Europe”

I flussi del grande mare, il bacino liquido di tutte le civiltà di cui ha cantato la grandezza nel suo indimenticabile Breviario mediterraneo, si arrendono alla terra ferma al loro traguardo più settentrionale, all’apice del golfo del Quarnero. Alle porte di Fiume, sul litorale di Abbazia, Predrag Matvejevic, lo scrittore simbolo della nuova Europa, è venuto da Zagabria a parlare con gli ebrei del Continente che guardano al mare. Lo incontro sulla spettacolare passeggiata da Lovrana a Volosca, 12 chilometri di scorci mozzafiato lungo la strada pedonale inaugurata, poco prima della fine del grande impero di Vienna e di Budapest che fu la casa comune delle genti della Mitteleuropa, per accogliere una visita dell’imperatore Francesco Giuseppe.
Tutte le frontiere si sfiorano sotto gli occhi degli ultimi, ignari bagnanti. Di lì a Vladivostok si stende l’oceano dei popoli slavi, alle nostre spalle subito l’Italia e l’Europa dei latini, guardando a Nord l’orizzonte delle genti germaniche. Bejahad, il festival che chiama a raccolta le comunità di Croazia e di Serbia, di Bosnia e di Macedonia, d’Austria, di Slovenia e d’Ungheria, ma che per la prima volta quest’anno ha aperto le porte e recuperato anche una componente insostituibile della propria identità, quella italiana, lo ha accolto con la passione e il rispetto dovuti a un grande della cultura europea. In mano stringe la prima copia del suo nuovo libro che ancora odora di inchiostro. E a tutti, passando con balzi leggeri attraverso le innumerevoli lingue slave, latine e germaniche che padroneggia senza fatica né imbarazzo, Matvejevic racconta ora una nuova grande storia, quella del Pane.

Il suo Breviario Mediterraneo non è solo lo sfoggio di un’erudizione vertiginosa, ma è divenuto un libro universale, tradotto e pubblicato su tutti i continenti, che ha folgorato e sommerso di emozioni tanti lettori in tutto il mondo. Claudio Magris lo ha definito con poche parole: “Un libro geniale, imprevedibile, fulmineo”. Quale altra grande storia ha deciso di narrare nelle pagine di Pane nostro, che giunge in questo inizio d’autunno nelle librerie pubblicato da Garzanti?
Il desiderio di scrivere un libro sul pane ha preso corpo nei giorni della mia infanzia. Svaniva e poi tornava. Negli anni della prima maturità ho cominciato a scriverlo più volte, ma mi interrompevo sempre. Prendevo il manoscritto, poi lo lasciavo da parte. Dopo essermi allontanato dal mio paese, la Jugoslavia, che era in guerra con se stesso, sono stato costretto ad occuparmi d’altro. Ho scritto libri su vari argomenti. Ma non ho mai dimenticato il “pane nostro”. Il libro mi ha preso infine vent’anni di lavoro e di ricerca e soprattutto ha richiesto di fare i conti con la mia memoria.

A quali memorie si riferisce?
Era in corso la guerra mondiale, la seconda nel secolo alle nostre spalle. Nella mia infanzia ho vissuto quattro anni di fame. Mio padre era stato deportato in un campo di concentramento, con la semplice motivazione che proveniva da una nazione con la quale il paese in cui vivevamo era in stato di guerra. Era fuggito da una Russia tormentata dopo la rivoluzione, vent’anni prima che la Germania tornasse a farle la guerra. Chiamato alle armi da una Jugoslavia che si stava sfaldando per la prima volta, era stato fatto prigioniero come soldato semplice. La maggior parte dei suoi compagni non sono sopravvissuti. Lui si è salvato. Quando lo rividi feci fatica a riconoscerlo. E mi raccontò subito con meraviglia di aver ricevuto nell’inverno fra la fine del ‘42 e l’inizio del ‘43 un pezzo di pane da un tedesco. Anche durante la guerra mondiale ci furono episodi di umanità. Troppo pochi, ma ce ne sono stati.

E poi?
Dopo la guerra nella cittadina dove eravamo rifugiati passavano i soldati tedeschi prigionieri di guerra. Ancora ombre di fame e disperazione. Mio padre divise la povera razione di pane per la nostra famiglia e mi mandò a donarlo a un tedesco. Ma a convincermi che questo libro dovevo farlo è accaduto ancora altro. Dopo aver letto la testimonianza di Primo Levi (“Rubano il pane degli altri”) ebbi l’occasione per la prima volta di vedere il Mar Nero di visitare Odessa, la città dove mio padre era nato e da dove era emigrato nel 1920. La zia Natalija mi fece sapere che Vladimir, il fratello di mio padre, era morto in un gulag invocando il pane di cui l’avevano privato. Proprio come il poeta ebreo Osip Mandel’stam ucciso dai lager staliniani mentre invocava un pezzetto di pane. Anche questa, come le sue opere precedenti, mostra una cultura vastissima.

Quali sono state le sue fonti?
L’opera più esauriente scritta fino ad oggi sull’argomento, Seimila anni di pane (Sechstausend Jahre Brot), è di un ebreo tedesco, Heinrich Eduard Jacob. Alla fine del libro testimonia della sua esperienza di sopravvissuto di Buchenwald dove riceveva un pane fatto della mistura di patate e segatura. Ci si può domandare: avrebbe potuto scrivere un libro di tale valore se non avesse dovuto mangiare un pane del genere? Durante i miei diciassette anni fra asilo ed esilio in Francia e in Italia molti mi hanno aiutato nelle ricerche. Vorrei citare lo specialista americano Steven Kaplan e l’ebreo milanese Gabriele Mandel. E non voglio dimenticare lo storico Georges Duby e Piero Camporesi, il mio compagno zingaro Rajko Djuric, che ha perduto una parte dei suoi durante la Shoah e l’altra nella guerra balcanica.

Il pane è storia, cultura, letteratura e in molte pagine del suo libro è rito, religione. A cominciare dalla lezione ebraica sulla benedizione e la consacrazione della trasformazione del cibo. Può essere anche guida e lezione per il futuro?
La cultura ebraica può ricomporre l’animo lacerato delle due Europe. E curare le ferite. All’inizio del terzo millennio ci sono molti che muoiono di fame. L’alterazione del clima e l’inquinamento spingono i nomadi del nostro tempo a tentare, talvolta disperatamente, di trasferirsi in luoghi dove c’è più pane. Il pianeta è esposto a mutamenti devastanti. Il consumo incontrollato di energia minaccia di provocare conseguenze devastanti e fatali. Mentre stendevo le ultime righe di questo libro il mondo era nuovamente dominato da una crisi che lo ha investito con inaudita velocità, ponendolo di fronte a minacce inattese. Fra qualche decennio l’umanità ammonterà a otto miliardi di abitanti di cui, secondo le stime e le previsioni, praticamente un quarto potrebbe restare senza pane.

Nella postfazione al libro Erri De Luca riparte dal mito della manna. Nella prefazione Enzo Bianchi cita il Qohelet (“Getta il tuo pane sulle acque perché con il tempo lo ritroverai”). Fra le sue pagine le miniature dalla Haggadah di Sarajevo illuminano il pane azzimo della Pesach. Cosa possono fare oggi i letterati e gli uomini di buona volontà?
Possono solo esprimere preoccupazione e inquietudine. L’antropologo Claude Lévi-Strauss ha scritto che “il mondo è cominciato senza l’uomo, e può finire anche senza di lui”. L’umanità è nata senza pane e può scomparire perché non ne avrà più.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, Ottobre 2010

(Disegno di Giorgio Albertini)