A cercare la “bella morte”
Torniamo a ragionare sul jihadismo. Lo facciamo senza l’urgenza della ribalta dettata dalla cronaca, per meglio intendere il suo significato storico, oltreché politico. Si tratta di un termine relativamente nuovo, generatosi e poi diffusosi, come espressione di ricorso comune, nell’ultimo decennio. Comunque, non troppo prima dei fatti del settembre del 2001. E tuttavia, l’insieme dei fenomeni che la parola in sé contraddistingue (soprattutto, in ordine di successione, il ricorso sistematico alla violenza politica attraverso l’uso di una retorica del discorso pubblico che rimanda alla sfera della religione come ad una totalità, nonché la concezione militarizzata dei rapporti politici, fatto che implica la distruzione integrale dell’avversario) non risale a questi ultimi anni, semmai collocandosi nel transito storico compreso tra gli anni Sessanta e Settanta, a fronte delle crepe del discorso politico secolarizzante dei vari Nasser e delle leadership terzomondiste. Il khomeinismo, così come i mujaheddin afghani, un decennio dopo, non faranno altro che iniziare a capitalizzarne i risultati. Nel mentre si svolge la oramai dimenticata guerra civile algerina, carneficina archiviata molto velocemente perché sostituita da altre emergenze.
Il radicalismo islamista nel corso del tempo ha conosciuto diverse stagioni, adattandosi ai diversi mutamenti di circostanza, ambiente e contesto. Oggi il jihadismo si presenta come un’ideologia non solo totalizzante (ossia in grado di soddisfare in se stessa tutte le esigenze politiche, identitarie e morali di chi la fa propria) ma anche globale, estendendosi, o comunque ambendo ad estendersi, a tutto il pianeta. Non è quindi un caso se essa si basi su un vero e proprio bricolage intellettuale di suggestioni militanti, sia di derivazione islamica sia di altra origine, partendo dalla stessa esperienza europea. In questo secondo caso rimangono, come ombre non ancora del tutto estintesi, sia il modello di militanza fascista (soprattutto laddove il suo vero nocciolo è non un progetto politico ma il “cercare la bella morte”, facendo della fine della propria e altrui esistenza una sorta di martirio estetizzante), sia quello dei terrorismi politici della seconda metà del Novecento. Gli ideologi e i sostenitori del jihadismo trovano un punto di sintesi nell’offrire a quanti vi aderiscono l’impressione di essersi rivestiti di una nuova identità, una sorta di punto di partenza inteso come una “rinascita”. Si tratta di qualcosa che il radicalismo condivide con i movimenti messianici del “born again”, diffusi soprattutto in ambito protestante. Ma stiamo parlando di una matrice mentale, di un modo di porsi dinanzi alle difficoltà della vita e alla complessità della società piuttosto che di una radice ideologica. Alla base della prima, infatti, c’è il convincimento di appartenere finalmente a qualcosa di più grande di se stessi. Si tratta del gruppo di sodali che hanno ricevuto da una entità superiore, insindacabile, che fa appello alle coscienze interiori, chiedendone il sacrificio dei corpi, l’incarico di ristabilire l’ordine delle cose, sovvertito dalla modernità empia e ingiusta. A questa si contrappone l’azione militante che porterà alla realizzazione dell’autentica comunità dei fedeli, il califfato inteso come una sorta di monarchia islamica universale. In questo senso la radice motivazionale dei jihadisti è ancora più proiettata all’indietro di quanto non avvenga se le lancette dell’orologio della loro storia vengono fatte coincidere esclusivamente con i processi di decolonizzazione. Il vero punto di non ritorno è il declino e la scomparsa dell’Impero ottomano, con la Prima guerra mondiale. L’abolizione del califfato da parte di Mustafa Kemal Atatürk, prima ancora che indicare un mutamento di regime politico segnò, infatti, una rottura nei simbolismi rassicuranti di una parte della tradizione politica musulmana. È in quel frangente, e per i suoi effetti di lungo periodo che maturò la risposta dei Fratelli musulmani. La loro nascita, nel 1928, peraltro si rifaceva ad un modello di riferimento, quello della Young Men’s Christian Association, della quale recuperava un insieme di elementi, pur rifiutando in toto qualsiasi ecumenismo di sorta: l’apartiticità, il solidarismo tra omologhi, il ricorso ai Testi sacri della propria tradizione ma offrendone una lettura in controtendenza con quella fatta dai depositari istituzionali dell’interpretazione, il forte nesso tra pensiero e azione, il principio dell’auto-organizzazione e della reciprocità tra appartenenti allo stesso gruppo, l’attenzione verso i giovani e la formazione di quadri politici in grado poi di intervenire nella società. La confraternita della Fratellanza, per le parole del suo stesso fondatore, Hassan al-Banna (1906-1949), realizza quindi il mandato presente nell’idea stessa di Islam, essendo nel medesimo tempo la materializzazione di «dogma e culto, patria e nazionalismo, religione e Stato, spiritualità e azione, Corano e spada». Non si tratta di una teologia, se quest’ultima rimanda ad un discorso intellettuale e morale sulla divinità, sulla religiosità e sullo spirito, ma di una concezione rigorosamente teleologica, ossia finalistica, dell’azione di impianto religioso. Quest’ultima è intesa come una totalità che informa di sé tutta la vita del credente e, in immediato riflesso, della comunità politica e sociale in cui questi opera. L’obiettivo è sempre e comunque dichiaratamente collettivo, ossia islamizzare daccapo integralmente la società, operando però dal basso, attraverso il reticolo dell’associazionismo di base, presente un po’ ovunque. Ciò facendo si salta a piè pari la complessità delle scuole giuridiche e religiose che storicamente fanno da contorno all’Islam degli studiosi e dei sapienti. Quello che i Fratelli musulmani propongono è un islamismo tanto inflessibile in una sua parte di precettistica (quella che funge alla legittimazione dell’azione concreta) quanto flessibile sul piano della sua applicazione, adattandosi di volta in volta alle circostanze date. Si tratta della formula vincente, che ha permesso all’organizzazione di resistere fino ad oggi. Alla fine dei percorsi di islamizzazione, secondo i canoni puristi, si realizzerà quindi l’avvento dello Stato islamico, inteso come regno divino in terra, plausibilmente su tutto il pianeta. Il potere politico, e non la cultura e l’educazione in quanto tali, sono quindi i veri obiettivi del jihadismo. Le seconde sono semmai funzionali al raggiungimento del primo. Non di meno, essendo improponibile la creazione dal nulla di un califfato, risulta assai più verosimile che nei fatti, quelli che possono riguardare un tempo futuro, vicino o lontano che sia, a garantire il concreto risultato politico possa essere solo un processo dove gli Stati islamici preesistenti, tali poiché in grado di applicare la Sharia, si integrino tra di loro, cooperando per il superamento delle preesistenti divisioni e per la costruzione di un governo islamista mondiale. La dottrina della Fratellanza, peraltro, non è per nulla chiara rispetto alla natura di uno Stato islamico. Se ne astiene sia perché non ha formule precise sia perché non intende alienarsi simpatie a priori. Tuttavia, alcuni indirizzi di fondo sono evidenti, rivelando soprattutto ciò che non si vuole o ciò che si intende impedire. L’avversione per la democrazia è netta, contrapponendo ad essa, denunciata come il luogo del pluralismo identitario e, quindi, della inesorabile decadenza morale, visioni orientate al governo delle élite “ben ispirate” (poiché informate all’ideologia islamista), all’autoritarismo (inteso come metodo di imposizione della volontà “superiore” a una società altrimenti incosciente), al dirigismo in campo sociale ed economico. Fondamentale è comunque l’opporsi alla libertà come condizione personale, alla concezione liberale dell’individuo, alla separazione dei poteri, alla loro secolarizzazione (con la divisione tra religione e amministrazione pubblica, invece da ricomporre). Anche da ciò deriva il monismo di cui il movimento di al-Banna è depositario: una sola legge, la Sharia; un solo partito, gli stessi Fratelli musulmani; un solo capo, il califfo o governante musulmano supremo. Se è questo è da sempre il quadro di riferimento ideologico, nella realtà dei fatti l’evoluzione delle cose ha indotto una parte della galassia del radicalismo a porsi, con crescente rilevanza, il tema del ricorso alla violenza per accelerare il processo storico. Si trattava, nei decenni trascorsi, anche e soprattutto di una reazione alla durissima repressione imposta dalle autorità al potere, a partire dall’Egitto. La contrapposizione, nel qual caso, era essenzialmente tra le giunte militarizzate cresciute nel Medio Oriente dal secondo dopoguerra in poi e i movimenti islamisti di base. Il pensiero di Sayyid Qutb (1906-1966), altra fonte autorevole della Fratellanza, si inserisce infatti nelle trasformazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. La sua visione pessimista, a tratti inconsolabile, lo induce a ritenere che il mondo arabo-musulmano sia caduto in un’età dell’ignoranza, della miscredenza e dell’empietà. Al vero credente viene quindi richiesto un atto di militanza totale (per più di un aspetto simile a quello di certi movimenti politici occidentali, a partire da quelli neofascisti), riconoscendo i caratteri minoritari, a tratti marginali, della sua identità rispetto al resto della società. Minorità e marginalità non di ordine morale; semmai segni di una condizione di alterità, misura della inconciliabilità personale rispetto alla corruzione dilagante. Separandosi dal mondo circostante e coltivando, in una sorta di elitarismo dei prescelti, la specificità spirituale e civile della sua posizione, l’islamista militante avrebbe potuto contribuire, con i correligionari, ad avviare un’opera di re-islamizzazione delle società secolarizzanti. Il “vero credente”, quindi, non è il musulmano di tutti i giorni ma l’alfiere di una sovranità divina assoluta, una teocrazia integrale, senza però la mediazione di clero e istituzioni. Alla sua restaurazione deve consacrarsi integralmente. Il tutto all’interno di una idea totale di Jihad, in quanto “guerra santa”, senza quartiere, dove la forza non è più quella che si esercita verso il proprio spirito contro le tentazioni secolari ma il prodotto di un materiale corpo a corpo con gli infedeli, gli apostati, i miscredenti.
Nel jihadismo contemporaneo la violenza diventa uno strumento per identificare il significato e la legittimazione definitiva all’agire politico. Non si tratta di una novità nella storia della civilizzazione musulmana ma adesso si confronta con le condizioni di un mondo globalizzato. Durante gli anni Sessanta le idee di al-Banna e di Qutb sono nel medesimo tempo frenate e rilanciate dal fatto che non trovino nessuna udienza tra gli ulema, i giureconsulti e gli studiosi accreditati dell’Islam allora dominante, variamente compromesso o ibridato nei rapporti di scambio con le autorità politiche. La tradizione musulmana, da questo punto di vista, è sostanzialmente estranea all’avanzare di una concezione attivista e militante che, invece, sollecita le passioni di alcuni gruppi intellettuali marginali poiché estranei ai centri di potere. I riferimenti jihadisti a un giurista e teologo come Ibn Taymiyya (vissuto tra il XIII e il XIV secolo), nonché ai suoi discepoli, costituivano allora un pallido tentativo di dotarsi di una credibilità che ancora mancava. La vera svolta, quella grazie alla quale le potenzialità ancora inespresse di gruppi alla ricerca di un copione politico si incontra invece con nuove e insperate risorse, si consuma con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel 1979. È in quella circostanza che l’Arabia Saudita interviene con la sua dottrina teologica e giuridica, quella wahhabita, offrendo al campo jihadista un’ortodossia militante. L’osservanza saudita nasce nel XVIII secolo nell’Arabia centrale, come derivazione sui generis da una delle quattro grandi scuole giuridiche del sunnismo, quella hanbalita. Il suo fondatore, Mohammed ibn al-Wahhab (1703-1792), fu un predicatore intransigente che diede corpo ad una nuova tradizione basata sull’assunzione letteralista del Corano. In realtà, dietro ad un tale approccio vi era anche un’alleanza di potere, quella con l’emiro Muhammad ibn Saud e suo figlio, fondatori del casato saudita. Nel 1744 il legame tra lo studioso e gli esponenti politici, basato su un programma di rinnovamento delle abitudini e dei costumi (considerate le une e reputati gli altri troppo distanti dal nocciolo di un “autentico” messaggio islamico), si trasformò nel punto di sintesi, ovvero nel manifesto ideologico, in base al quale venne poi costituendosi e strutturandosi il Regno saudita fino ai giorni nostri. Non di meno, da ciò si generarono una serie di fratture intestine al mondo islamico, a partire dalla lotta intrapresa dal sultanato di Costantinopoli contro l’espansione del wahhabismo, percepito come una minaccia nei confronti dell’Impero ottomano. Originatasi come uno dei molteplici tentativi di tornare alle fonti dell’Islam rileggendole in chiave fondamentalista (unicità di Allah, osservanza rigorosa della precettistica desunta dal Corano, condanna senza quartiere di alcune abitudini di condotta diffusesi nel corso del tempo tra la popolazione, lotta contro l’”idolatria” e la “superstizione”), la dottrina di al-Wahhab da subito manifestò la sua avversione nei confronti delle interpretazioni personali degli esperti della legge musulmana non meno che nei riguardi del sufismo. A qualsivoglia moto spirituale contrapponeva la lettura essoterica, ovvero letteralista, quindi oggettivista dei Testi sacri, sulla base del principio per cui ogni “dato rivelato” debba essere accettato così com’è, senza porsi domande di sorta. Il fatto che il wahhabismo raccolga a tutt’oggi nel mondo musulmano una minoranza di assensi, fungendo soprattutto da supporto e sostegno all’azione iper-conservatrice della casa regnante in Arabia Saudita, non ne ha scalfito la visibilità mediatica che è andato conquistando negli ultimi decenni. Il suo ossessivo ritualismo e il dogmatismo culturale che lo accompagna, l’accusa ripetuta di “apostasia” contro i musulmani non wahhabiti, la rivendicazione del diritto implacabile di procedere prima di tutto contro di loro (ed in particolare contro gli sciiti e i sufi) nell’opera di conversione del mondo, legandola al ricorso sistematico alla violenza, hanno fatto premio sull’elaborazione di una dottrina che non fosse la ripetizione del già detto. Anche per questo, ovvero per il suo costituirsi come precettistica dell’azione e della contrapposizione, può vantare una forte influenza sui movimenti militanti islamisti, laddove essi si propongano di mutare gli equilibri geopolitici esistenti. Il principio cardine della mobilitazione riguarda il richiamo alla «servitù e alla frattura»: il credente-militante ha l’obbligo di una fedeltà assoluta al gruppo di riferimento; di riflesso, le relazioni con coloro che non sono propri pari si limitano alla loro conversione o, in assenza di essa, alla secca sottomissione se non alla soppressione fisica. La dottrina del Jihad come «pilastro nascosto», quindi fondamento imprescindibile nella professione di fede dell’“autentico musulmano”, in quanto legittimo ricorso alla forza, si coniuga ad una visione apocalittico-messianica dell’agire quotidiano. Il “Jihad globale”, contro le potenze empie e i regimi arabo-musulmani “corrotti”, dall’inizio degli anni Ottanta si è pesantemente calato nella realtà del discorso politico islamico, condizionandone indirizzi, evoluzioni ed effetti. In realtà le organizzazioni jihadiste, alla resa dei fatti, si sono adattate alle logiche della globalizzazione laddove hanno manifestato una spiccata propensione a coniugare discorsi eversivi su scala planetaria ad assestamenti di potere sul piano più strettamente locale. L’opportunismo ne è un tratto caratteristico, che costituisce l’altra faccia della medaglia di una intransigenza che è prima di tutto strumento di morte come anche di fidelizzazione degli assensi da parte di coloro che, così facendo, trovano una nuova identità attraverso non ciò che ritengono di essere ma per quanto rifiutano di conoscere. A partire da un mondo che vorrebbero dominare e del quale sono invece rabbiosi figuranti.
Claudio Vercelli
(5 febbraio 2017)