Ebrei in Germania nonostante tutto
Alla Berlinale le lacrime e il riso
Non era niente di più che un pugno di disperati, quello che restava dell’ebraismo tedesco al momento della liberazione. Decimati, affamati, disperati, con un futuro da costruire e una vita da vivere senza nemmeno comprenderne le ragioni.
“Es war einmal in Deutschland” (C’era una volta in Germania, il titolo fa il verso al grande classico di Sergio Leone), il film di Sam Garbarski che ha aperto trionfalmente il sessantasettesimo Festival internazionale del cinema di Berlino, ci porta in mezzo a loro in un’esperienza che per molti spettatori non sarà facile dimenticare.
Tutto costruito sul ritmo serrato della trilogia letteraria del “Die Teilacher” di Michael Bergmann, il romanzo che ha messo in luce il genio letterario di uno degli esponenti più in vista della realtà ebraica di Francoforte, il film di Gabarski mette sulla scena la grinta di attori fuori dal comune come Antje Traue e uno straordinario Moritz Bleibtreu ormai ben conosciuto anche dal pubblico italiano.
Il ruolo di David, l’ebreo dalla sfacciataggine sconfinata e dalla simpatia irresistibile, sopravvissuto solo per la sua prodigiosa abilità di raccontare barzellette ai gerarchi nazisti che sterminavano intanto i suoi cari e tutto un popolo, sembra tagliato apposta per un attore così versatile.
Per quasi due ore si ride e si piange, e a volta le lacrime si mescolano, senza prendersi mai una pausa.
Ma, quello che forse più conta, mostrando con profondità e senza annoiare il terribile regolamento di conti che gli ebrei tedeschi sopravvissuti hanno affrontato alla fine della guerra con la società e all’interno del proprio mondo, si porta a termine una operazione sulla Memoria che rappresenta bene l’enorme lavoro mentale e culturale, il processo di maturazione e di assunzione di responsabilità compiuto dalla Germania nel dopoguerra.
È il 1946, mentre si prepara il processo di Norimberga, in una Francoforte ridotta in polvere gruppuscoli di ebrei sopravvissuti si aggirano nei baraccamenti riservati alle persone disperse e allestiti dalle autorità alleate. David, unico sopravvissuto della sua famiglia, erede di un elegante negozio di biancheria della città, disperatamente assetato di vita, raccoglie attorno a sé una banda di pronti a tutto per avviare un commercio corsaro di tessili e cominciare a ricostruirsi una esistenza.
La storia e il carattere di ognuno di questi personaggi è un viaggio nella sofferenza indicibile e nella forza incredibile che gli ebrei tedeschi hanno sottolineato. Ma il confronto per David si estende quando si trova indagato dalle autorità militari americane che vogliono capire se non sia stato un collaborazionista. Addirittura qualcuno che nella speranza di sfuggire alla camera a gas non abbia accettato di insegnare l’arte di raccontare una barzelletta allo stesso Hitler, alla disperata ricerca di qualche battuta ad effetto per fare bella figura nell’imminenza di un suo incontro con Benito Mussolini.
E il confronto prosegue, si stringe come una morsa negli interrogatori che potrebbero portarlo alla pena capitale per collaborazionismo, ma anche i suoi accusatori, che vestono la divisa dei liberatori, sono in definitiva ebrei tedeschi che erano riusciti a lasciare la Germania giusto in tempo. E fra il sospettato David e l’inquirente Sara Simon, fra sospetto, paura, brama di impietosa verità e voglia di sorridere alla vita, alla fine scoppia una passione difficile da trattenere.
È un regolamento di conti spaventoso e necessario, nella caccia ai criminali, nella oscenità dell’indifferenza, nell’orrore e nel senso di Giustizia e di speranza che continuamente rialza la testa. La tragedia e la forza incredibile di essere ebrei in Germania. Ma soprattutto un regolamento di conti della vita contro la morte, dell’identità contro il buio, della voglia di ridere contro l’orrore.
Bergmann e e Gabarski riescono a mettere alla portata di tutti quello che forse è più difficile raccontare: che cosa significhi davvero essere dei sopravvissuti. E così facendo mettono a segno un importante investimento per la Memoria autentica, per una Memoria che si perenne fonte di vita e costante difesa di valori. Una vera e propria lezione di politica della Memoria.
Ma rendono omaggio, soprattutto, a quello sparuto gruppo di ebrei, erano appena quattromila, che nonostante ogni logica apparente decise di fermarsi in Germania, di partecipare alla ricostruzione, di riprendersi quello che si era voluto loro strappare con la bestialità. E mettono assieme grande cinema, spettacolo travolgente, emozione forte, determinazione a scegliere per la vita.
Sì. C’era una volta tutto questo, in Germania. E c’è ancora oggi più che mai. Perché quel drappello di sbandati che restando salvò contro ogni logica apparente l’onore dell’Europa, grazie alla capacità strategica e alla dirittura dei propri leader comunitari, grazie alla tenacia di chi non volle arrendersi, è oggi un gruppo numeroso, forte, determinato, accogliente e ben consapevole della propria identità.
Qualcuno doveva restare, qualcuno doveva ricostruire, qualcuno doveva farlo. Si dice che nessuno sia stato effettivamente in grado di spiegare ai propri figli le ragioni di quella scelta. Eppure, come dice il protagonista folgorando lo spettatore sul finale, era necessario, perché in definitiva “sarebbe stato un vero peccato lasciare ai tedeschi un così bel paese”.
gv