Fratelli nella notte
I Fratelli musulmani sono l’epicentro ideologico e storico della svolta attivista che connota l’islamismo radicale e che oggi è l’ossatura del fenomeno jihadista. Non a caso nascono nel 1928, quando il riscontro che il Califfato ottomano era definitivamente tramontato diventa disagio insopportabile, alla ricerca quindi di un qualche sbocco politico. Il programma che avanzano è di ribaltare la sfida della modernità, intendendo la pratica islamica non come un culto bensì come una totalità. Si ha uno Stato islamico quando esso coincide in tutto e per tutto con la comunità dei «perfetti credenti», che si ispira alla piattaforma della Fratellanza: «Dio è il nostro programma; il Corano è la nostra Costituzione; il Profeta il nostro leader; il combattimento sulla via di Dio la nostra strada; la morte per la gloria di Dio la più grande delle nostre aspirazioni». Centrale, nel messaggio del movimento, è il richiamo interclassista, che rimuove integralmente la contrapposizione tra gli interessi materiali e i conflitti che ad essi si accompagnano. Gli uni e gli altri sono presentati come fratture inaccettabili rispetto all’obiettivo di unificare l’Umma, che saprà da sé dare delle risposte alle tensioni della modernità. Si tratta, per l’appunto, di islamizzare la modernità, soprattutto dal momento in cui quest’ultima ha dato fuoco alle polveri di tensioni sociali per le quali sembra non avere concrete risposte da offrire. Con la Fratellanza si manifesta la natura combattente dell’islamismo radicale, che sfocerà poi nello jihadismo. Solo chi è pronto al sacrificio di sé, divenendo un «martire» (shahid), può accedere alla piena comprensione della radicalità dell’islamismo. Fatto che chiama in causa il jihad come sforzo attivo. Un errore comune è il ritenere questi movimenti privi di una loro “moralità”, ossia di una sorta di codice etico intrinseco, confondendo la brutalità deliberata con la quale agiscono, in voluto spregio ai diritti più elementari, a partire da quelli comunemente riconosciuti dalla comunità internazionale, con la loro essenza. Ma qualsiasi organizzazione totalitaria, e l’islamismo – come già abbiamo visto – non sfugge a tale definizione, fonda se stessa, le sue pretese, la sua visione del mondo, i criteri del suo proselitismo, le modalità della sua auto-riproduzione nel corso del tempo a ciò che potrebbe essere definita come “supermoralità”. Tale condizione indica, infatti, da un lato il rifiuto della “morale tradizionale”, quella dettata dalle istituzioni laiche e dal sistema delle relazioni internazionali tra gli Stati, contro la quale il radicalismo dice di volere condurre una lotta senza quartiere in quanto depositaria dei germi della corruzione; dall’altro istituisce un’etica che presenta come superiore, e come tale indiscutibile, alla quale occorre sottomettersi. Ogni gesto, a partire da quello violenti, viene ricondotto a tale obiettivo e, quindi, giustificato a prescindere. Una sorta di supermoralità, fondata sui propri canoni e a prescindere dal riconoscimento dell’umanità altrui (la quale, semmai, è negata a priori) deve informare di sé ogni aspetto della vita quotidiana, ogni condotta, al limite ogni pensiero. E trova il suo fondamento primo e ultimo nella convinzione che al di fuori di essa ci sia solo la decadenza: dei corpi collettivi, la società; di quelli individuali, le persone. Il fanatismo, come atteggiamento e condotta abituali nelle relazioni sociali, trova proprio in questo costrutto il suo fondamento elementare e basilare. Ai maestri e agli esegeti della tradizione viene invece contestato la lettura formalistica e quietista dell’identità musulmana. La differenza nei confronti degli ulema, i dottori della Legge, i giurisperiti, si fa diffidenza e poi rifiuto integrale. Nella loro lettura del Corano riposa la deviazione contro la quale si deve combattere. L’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966), di cui si è già avuto modo di parlare anche in queste pagine, è il vero sistematizzatore dell’ideologia radicale quando si concentra su alcuni concetti cardine come jahiliyya («ignoranza»), fitna («disordine»), hakimiyya («sovranità»), ‘ubudiyya («adorazione»), hijra («rottura»), umma («comunità»), jihad («combattimento sulla via di Dio»), haraka («movimento»), fiqh haraki («diritto dinamico»). Si tratta di un reticolo di concetti su cui lo studioso e militante egiziano ricostruisce integralmente il pensiero politico islamico, trasformandolo in fattore di mobilitazione islamista. Alla tradizionale dicotomia geo-religiosa tra Dar al-Islam (la «casa dell’Islam», laddove il potere è detenuto dai musulmani) e Dar al-harb (la «casa della guerra», abitata dai non musulmani) Qutb, dichiarando tale divisione superata nei fatti, antepone la pressante denuncia del fatto che il nemico sia già in “casa”, tra i musulmani, costituendo una sorta di “occidente interno”. È questo un passaggio ideologico capitale, poiché introduce, legittimandolo una volta per sempre, il tema di fondo della necessità di purificare il corpo della società affinché si pervenga alla «verità». L’umma può essere ovunque e in nessun luogo. Non corrisponde, infatti, con un territorio fisico o geografico specifico. Semmai è una condizione dello spirito devoto al credo di un islamismo totalizzante e totalitario. È quindi costituita e abitata solo da chi è transitato verso uno stadio di purificazione dalle scorie dell’ibridazione. Tema suggestivo, estremamente militante poiché richiede a qualsiasi «buon musulmano» di interrogarsi permanentemente sulla propria condizione di inadeguatezza, sulla necessità di votarsi costantemente alla “causa”, di seguitare nello sforzo di donarsi ad essa, pena la propria incompiutezza. E la causa coincide con chi dà ad essa un nome, ossia con le élite politiche del movimento radicale. Di fatto la comunità dei credenti coincide, in tal modo, con quella dei militanti. Il jihad, lo «sforzo, il combattimento sulla strada di Dio» si nutre quindi di questa continua tensione, diventandone il completamento. I regimi empi vanno affrontati non solo con la predicazione del Libro ma con la soluzione della spada. Non si tratta più di difendere qualcosa si esistente; semmai si tratta di costruire quel che ancora non esiste o si dà in forma incompiuta. L’idea di jihad in Qutb si articola, dunque, come forma definitiva, compiuta della guerra civile di religione che sarebbe in corso a livello planetario, e quindi anche nei paesi che si vogliono musulmani, e che trova nell’Islam radicale il suo partito combattente. È guerra civile quella che si combatte al tempo della jahiliyya, ossia dell’ignoranza e della malafede. La codificazione sunnita, esauritasi con il X secolo, non è più sufficiente poiché, nei suoi anacronismi, si rivolge a qualcosa che non c’è ancora e, nel medesimo tempo, non c’è più: lo Stato della rettitudine. Si impone semmai un diritto dinamico, il fiqh haraki, dal carattere tanto transitorio quanto aggressivo, che risponda all’empietà e che faccia piazza pulita del disordine. Qualcosa che rimanda alle licenze assolute del diritto rivoluzionario, come era stato tematizzato cento e più anni fa, dove la liceità dei gesti la si costruisce sulla canna del fucile. E con esso necessita il riconoscimento della necessità di un permanente stato di emergenza, dove la figura cardine diventa il combattente per la fede. Più che al passato il militante-miliziano guarda peraltro al futuro. Non sono le sentenze dei giureconsulti e dei dotti a fare l’Islam; sono semmai i combattenti, dalle cui azioni sgorga il diritto dinamico in quanto tale. Qui si dispiega il radicalismo: non in un rimando alla tradizione che, per più aspetti, viene invece stravolta, bensì nella sospensione dello stato di diritto islamico e nella sua sostituzione con la norma “creativa” di un movimento che si vuole al passo con il tempo presente perché rivoluzionario. Da questa sospensione, che per gli islamisti è dettata dalla cogenza della necessità, derivano le licenze di condotta che portano anche a gesti eclatanti ed estremi. La responsabilità non è di chi li commette ma di chi mette i credenti nella condizione di doverli commettere. Per il radicalismo l’islamizzazione, delle società così come degli individui, è quindi il prodotto essenzialmente di un atto politico, ossia della conquista del potere. La politica, in questo caso, ha una triplice matrice. Prima di tutto non è funzione di rappresentanza, ovvero non si pone il problema di raccogliere e organizzare il consenso, poiché per l’islamismo questo non è il prodotto di una persuasione bensì il risultato di un riconoscimento, quello che è implicato dal fatto che la religiosità radicale sia l’unica e possibile forma di Islam praticabile; non esiste quindi nessun pluralismo, essendo questo semmai indice di corruzione dell’idealità e della moralità. Inoltre, ed è un ulteriore fattore di fondo, il campo politico viene fatto coincidere, almeno in un primo momento, con l’azione del movimento che si adopera nella conquista del potere e poi, una volta raggiunto questo obiettivo, con il “nuovo” Stato, emendato della presenza delle scorie dei vecchi regimi. La sovrapposizione tra fazione militante e apparato pubblico ricalca, per alcuni aspetti, l’esperienza dei partiti comunisti del Novecento. Il terzo elemento è l’estensione, pressoché infinita, del campo della conflittualità e, insieme ad esso, della contrapposizione amico/nemico. Il fattore coercitivo è quindi strategico: solo l’intervento dall’alto, fortemente prescrittivo, può mettere ordine in società “infettate” dall’ignoranza, dall’incoscienza e dalla penetrazione dei falsi valori occidentali. Si impone perché queste comunità sono realtà oramai atomizzate, parzialmente o completamente aliene dal disegno olistico islamico, dove invece le parti debbono coincidere armoniosamente nel tutto. La scelta neotradizionalista di intervenire invece dal basso, islamizzando progressivamente la comunità per poi porsi il problema della conquista del potere, è intesa oggi dai jihadisti non solo come inefficace bensì erronea, contribuendo semmai a potenziare il caos dominante. In un significativo ribaltamento di atteggiamenti, rispetto alle condotte delle origini, quando invece si privilegiava il lavoro di indottrinamento nella società. Per il fondamentalismo l’opzione della forza, d’altro canto, non è una delle diverse possibili ma il nocciolo della propria posizione. Ricorre la suggestione, in questo caso, della violenza come levatrice della storia, in quanto luogo di incubazione del mutamento. Il jihad, nella lettura che viene in tale modo valorizzata, è un combattimento non solo morale e spirituale ma militare e missionario verso l’affermazione dell’Islam e della sovranità di Dio. Se sul piano della teologia musulmana il jihad indica soprattutto i limiti di ciò che è consentito per la difesa integrale dell’islamicità, nella lettura radicale, sovversiva, è invece un mezzo che si fa fine, diventando a tutti gli effetti la difesa non di qualcosa, e neanche di qualcuno, bensì dell’idea di Allah stesso. L’assolutezza apocalittica di questo approccio coniuga l’idea di una guerra civile permanente con la necessità per il combattente di depurarsi dalle scorie di un falso pietismo; rinnova la contrapposizione tra Male assoluto e Bene totale; enfatizza il nesso tra violenza e spiritualità, laddove lo spirito missionario si esprime non nella parola ma nel gesto, non nella persuasione bensì nella coercizione, non nella predica ma nell’esempio eclatante. È ancora una volta la tematizzazione della guerra rivoluzionaria, dove però il movimento diventa il fine assoluto e la militanza l’unica forma di fede possibile, al di fuori della quale c’è solo l’oscurità dei tempi dell’ignoranza.La concezione aggressiva ed offensiva dello jihad trova il suo punto di massima espressione, una sorta di epitome totale, nel cosiddetto «martirio». Se nell’Islam il suicidio è proibito, la morte sulla «via di Dio», il sacrificio di sé nel nome di Allah, ovvero per la realizzazione del suo disegno, è invece degno della sua considerazione. Shahid è la parola araba con la quale si definisce che si incammina sulla strada di Allah immolandosi. La radice etimologica rimanda a «testimone», che a sua volta rinvia al più complesso concetto di jihad, il cui significato non può essere letto in chiave univoca. Raccogliendo e legittimando sia gesti offensivi così come atti difensivi. Se nella pubblicistica occidentale l’immediato accostamento è agli attentati suicidi, ossia ai cosiddetti «kamikaze», nella logica islamica, invece, vi è una più articolata stratificazione di significati, per l’appunto legati alla variabilità con la quale si intende il Jihad. Lo shahid è colui che per definizione porta avanti l’«impegno sacro e doveroso» di lottare per l’affermazione della fede. Un impegno che può prefigurarsi talvolta come una guerra dovuta (mai però «santa», espressione estranea alla dottrina giuridica islamica tradizionale). Tuttavia, le divergenze sull’interpretazione (e quindi sull’estensione) della funzione testimoniale attiva non mancano. Anche in ambito musulmano c’è chi discute circa la liceità del ricorso alla forza, essendo assai labili i confini tra una lecita azione di jihad, anche quando essa sia nel concreto estremamente rischiosa per la propria vita, e il suicidio, assolutamente vietato invece fin dall’epoca del Profeta Maometto. Il radicalismo islamico, tuttavia, salta a piè pari le disquisizioni in materia. Così come piega ad una concezione univoca il termine, altrimenti in sé polisemico, di jihad, che si raccoglie invece sotto l’ampia radice che deriva da ğ-h-d, ossia «esercitare il massimo sforzo» nel perfezionamento della propria fede così come nella sua imposizione ad altri. Benché abbia sempre un significato militante, tuttavia non va necessariamente inteso nell’accezione militare. Durante il periodo della rivelazione coranica, quando Maometto si trovava a La Mecca, il jihad rinviava all’esercizio interiore indispensabile per accedere alla comprensione del significato di Dio. Solo con il trasferimento da La Mecca a Medina, l’Egira, e con la fondazione di uno Stato islamico si addivenne al combattimento difensivo. Il Corano, nelle sue Sure, fa diversi rimandi al qital, lo «stato di guerra». Che tuttavia, a sua volta, può essere inteso con significati alternativi. Per certuni è autodifesa, per altri è riconoscimento della condizione di violenza che vige contro l’Islam (senza che ciò implichi necessariamente una risposta di identica natura), per altri ancora è invece la legittimazione piena alla lotta armata. Di tradizione si richiama il grande jihad interiore, che si rivolge alla dimensione individuale, dove alla persona è richiesto l’impegno continuo per purificarsi, seguendo la via maestra dell’insegnamento divino. Vi è poi il piccolo jihad, che rimanda alla guerra legale, ovvero legittimata dalle condizioni di aggressione, nel quale il combattimento armato è invece previsto ma prevalentemente a scopi difensivi. Ed è qui che, per l’appunto, si inserisce, con significative torsioni di significato, il radicalismo islamista, arrivando al jihadismo come fenomeno politico totale, attore devastante nella scena internazionale. Una lunga storia, ad onore del vero, oramai centenaria.
Claudio Vercelli
(12 febbraio 2017)