Torino – Il racconto della Testimone Liliana, farfalla gialla sopra il reticolato
Liliana Segre a Torino per incontrare i più giovani. Questa volta l’occasione nasce all’interno del programma legato alla mostra “Ricordi Futuri 2.0”, inaugurata il 26 gennaio scorso nelle sale del Museo del ‘900 e curata da Ermanno Tedeschi. Cuore della mostra una lunga intervista, o meglio un racconto a ruota libera, quasi un flusso di coscienza alla Joyce, in ogni caso oculato e preciso negli intenti, proprio della stessa Liliana, sopravvissuta al campo di sterminio di Birkenau, che come una “nonna ideale”, così si autodefinisce, parla attraverso un video a “nipoti ideali”.
Oltre lo schermo quindi, questo l’intento dei promotori dell’incontro. Il luogo scelto è l’aula Magna dell’Università di Torino all’interno della Cavallerizza Reale. Molti, anzi moltissimi i ragazzi presenti, tutti ancora una volta “nipoti ideali”. Accanto a Liliana, Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso della Resistenza, Ermanno Tedeschi e Nino Boeti, in rappresentanza del Comitato Resistenza e Costituzione.
Intenso il racconto, per una voce che non si arresta mai. “Sono stata bambina anch’io, anche se oggi è difficile associare tale immagine a quella attuale”. Così ha inizio l’incontro, con la difficoltà di proiettarsi nel passato, complicate dallo stacco temporale, oltre che generazionale. Liliana sembra mettersi subito nei panni di chi si accinge ad ascoltarla. In parte parla a se stessa, tenendo presente quello che è oggi. La narrazione si fa piano piano sempre più intensa, espressioni e parole vengono rimarcate, altre volte ripetute, e così assimilate da chi è con la mente in ascolto.
Ricorda le leggi razziste del ’38, la Testimone: “un fulmine sulle nostre teste” e poi l’inspiegabile espulsione da scuola. Liliana era una bambina all’epoca e frequentava le elementari. “Ero stata espulsa, parola molto negativa nella mente di un bambino, voleva dire aver fatto qualcosa di grave”. “Ma cosa?”, si chiede, e soprattutto “Perché? “Un perché che mi seguì per anni, un leitmotiv che mi seguì per tutto il periodo di prigionia e tutt’ora una risposta non l’ho trovata”. All’espulsione segue l’indifferenza: “L’indifferenza ti copre come nebbia”.
Poi arrivò la tentata fuga. Liliana era figlia unica, orfana di madre, attaccatissima al padre, un padre affettuoso, ma debole, spaventato e indeciso su come agire dopo la morsa in cui l’Italia si ritrovò all’indomani dell’8 settembre 1943. Tentò di fuggire con la figlia in Svizzera: “Eravamo dei piccoli borghesi inesperti e incapaci”, così Liliana si definisce con amarezza e profondo realismo. “Fu una fuga grottesca in tutti i sensi”, dalle difficoltà del viaggio attraverso le montagne all’esito nefasto. “Incontrammo i passatori, gli scafisti di oggi”, crudo riferimento al presente. “Mi sentivo una stupida eroina, mano nella mano con il mio papà, nulla poteva succedermi”. Passato il confine, furono poi respinti da un ufficiale svizzero tedesco. “Ci condannò a morte”.
San Vittore. Inizia così il periodo di prigionia: “Entrai in prigione a tredici anni”, e tornano come macigni i “perché? perché?”. Quaranta giorni di reclusione nelle carceri di Milano, quaranta giorni di “comunione di affetto con mio papà”, poi l’ordine di partire. “Come ci si guarda quando si sente dire che domani si partirà per ignota destinazione? Come guarda un padre la propria figlia?”. “Sono stata per lui materna perché lo sentivo disperato”. “Mi chiese perdono per avermi messa al mondo”.
Il viaggio. “ Ricordo il rumore delle ruote del treno che inesorabile ti allontana dai tuoi luoghi, dai tuoi odori”. Il viaggio verso l’ignoto durò sette giorni. “Il viaggio è cruciale, così come le fasi che lo attraversano: pianti e grida, poi il silenzio del mondo, il silenzio di Dio. Qualcuno pregava, noi li guardavamo esterrefatti. Poi di nuovo silenzio totale, essenziale di quando si sta per morire. A quel silenzio si sovrappose il rumore osceno dei tedeschi all’arrivo alla stazione prima di Auschwitz”.
6 febbraio 1944: arrivo a Birkenau. “Ma perché?” Liliana non riuscì per molto tempo a descrivere quello che provò appena entrata a Birkenau: “Era lo stupore per il male altrui”, così come lo ha definito Primo Levi.
La nostalgia all’interno del campo era proibita. L’unica cosa a tenerla in vita era l’istinto umano per sopravvivenza: “Più morte c’era attorno a noi, più volevamo vivere”. Liliana parla severamente di se stessa: “scelsi la vigliaccheria, non volevo vedere”.
Come una farfalla gialla: “Mi ero creata una doppia vita fantastica”. “Hanno tenuto prigioniero il mio povero corpo, ma la mia testa era volata al di sopra, come una farfalla gialla che vola sopra i reticolati”, la stessa farfalla che una bambina di Terezin disegnò su un foglio, oggi conservato a Praga.
Il lavoro in fabbrica: “Era importante uscire dal campo e sentire le campane , le persone parlare, tutti rumori di una vita diversa”.
La marcia della morte. “Una marcia della morte che diventò una marcia per la vita”, l’ultima terribile sofferenza inflitta ai pochi sopravvissuti a una decina di giorni dalla liberazione dell’esercito sovietico. “Una gamba davanti all’altra, una gamba davanti all’altra, voglio vivere”. “Eravamo delle vite sospese”, fino all’arrivo in quell’ultimo campo nel nord della Germania.
Alla gioia quasi insopportabile della liberazione, seguì la fatica del ritorno a una presunta normalità: “Ero una ragazza vecchia, ho faticato a farmi accettare”. “Per molto tempo mi sono sentita un’estranea”.
Oggi. “Io mi sento la nonna di quella Liliana, una Liliana che mi fa una pena infinita. Una proiezione di me”.
Nulla è più forte di una testimonianza sentita dal vivo, non perché ne avvalori l’autenticità o la veridicità, ma perché dà modo di osservare lo sguardo, di sentire l’inclinazione della voce, di percepire l’emozione prima di chi racconta un passato buio e poi le reazioni, anche se profondamente interiori, di coloro che hanno deciso di trascorre un pomeriggio con la Memoria, con la Storia, autentica, dolorosa, intensa, necessaria. È questa la sensazione che si prova una volta che l’incontro finisce, che le parole della testimonianza lasciano spazio a una terra di mezzo e i pensieri e le coscienze fluttuano tra sentimenti contrastanti. Così timidamente si esce dall’aula, ci si mette sciarpa e cappotto e si prova a riprendere a camminare nella vita di tutti i giorni, forse con una consapevolezza in più, forse.
Alice Fubini
(14 febbraio 2017)