Vita da zoroastriani

Sara Valentina Di PalmaPrendiamo un pomeriggio domenicale di metà inverno, ed un viaggio in macchina verso la propria Keillah dove, nonostante la distanza, torniamo volentieri appena possibile, in questo caso per il Seder di Tu BiShvat. La distanza permette di conversare tranquilli, senza doversi limitare alle frettolose comunicazioni di servizio tipiche dei giorni feriali. Si parla, tra le altre cose, di comuni amici che vedremo tra poco. Mi viene fatto notare che hanno nomi classici non ebraici, per la precisione uno macedone e l’altro persiano.
Cerco di ripescare da qualche anfratto della mia mente i lontani studi liceali (risalenti ad un’epoca in cui, ahimè, avevo competenze meno settoriali e molto più vaste di ora) ed ipotizzo che la scelta sia dipesa probabilmente dal filosemitismo di entrambi i sovrani di cui i nostri amici portano il nome: il secondo, Alessandro il Macedone, una volta conquistata la Terra d’Israele muovendosi alla volta dell’Egitto, riconobbe l’autorità del Cohen Gadol e garantì il rispetto della religione ebraica, mentre il primo, Dario di Persia, favorì in tutto il suo regno la permanenza dei culti locali e permise la ricostruzione del Tempio dopo la prima Diaspora. I due in un certo senso si incontrarono, quando il discendente dell’achemenide, Dario III, fu sconfitto da Alessandro ad Isso nel 333, nella battaglia in cui le forze del sovrano macedone sconfissero definitivamente i persiani.
Mentre discorriamo, alla radio trasmettono una canzone dei Queen. Piuttosto, cambio (solo in parte) discorso, lo sapevi che Freddie Mercury aveva origini indiane, provenendo da una famiglia parsi? Ovvero, faceva parte della diaspora zoroastriana arrivata dalla Persia nell’VIII secolo, con l’inasprirsi della persecuzione attuata dagli arabi musulmani, i quali nel 651 avevano sconfitto i sassanidi che reggevano il secondo grande impero persiano dopo quello achemenide.
I conquistatori islamici, dopo aver fatto proprie le competenze dei quadri dirigenti zoroastriani inglobandoli nel proprio ceto amministrativo, dopo l’VIII secolo iniziarono l’islamizzazione della Persia espellendo i zoroastriani da qualsiasi posizione politica, economica e culturale di rilievo, e dando vita ad una violenta campagna contro la minoranza zoroastriana attraverso conversioni forzate all’Islam, distruzione di testi sacri ed assimilazione culturale, demolizione dei luoghi di culto, imposizioni economiche crescenti e discriminazioni civili e sociali, tanto che entro il IX secolo la maggior parte degli zoroastriani era convertita all’Islam, e la popolazione zoroastriana poté riprendersi solo dalla conquista mongola nel XIII secolo – cui seguirono tolleranza politica, reintroduzione della lingua persiana e tolleranza per le minoranze in ambito diplomatico e commerciale, ambito in cui le minoranze ebraica, armena e zoroastriana continuarono a distinguersi anche sotto il successivo dominio savafide, come sottolinea Khanbaghi (Aptin Khanbaghi, The Fire, the Star and the Cross. Minority Religions in Medieval and Early Modern Iran, I.B. Tauris & Co. 2006).
Diversi sono i punti di contatto tra zoroastrismo ed ebraismo: religioni rivelate, in cui Ahuramazda impartisce i comandamenti a Zarathustra come Kadosh BaruchHu con Moshe sul Sinai, hanno in comune il processo di creazione del mondo, diversi temi escatologici compreso il messianesimo, numerose norme – ad esempio quelle sulla purificazione corporea dopo il contatto con l’impurità.
Nel dubbio se sia nato prima l’uovo o la gallina, gli esperti discutono se l’ebraismo sia stato influenzato dallo zoroastrismo (perlomeno per quanto concerne l’escatologia) o viceversa – secondo James Darmesteter sono stati i persiani a trarre ispirazione dall’ebraismo (James Darmesteter, La Zend-Avesta, E. Leroux 1893).
Interessante è poi una questione che giunge ai giorni nostri. Sebbene gli studiosi non siano concordi sull’estensione concettuale della definizione di diaspora ebraica a vicende storiche che hanno caratterizzato altre minoranze esuli dalla loro terra d’origine, mi pare condivisibile la definizione di Hinnells, secondo il quale l’analogia sta nel “potente legame emotivo con una patria reale od idealizzata, distante dalla nuova residenza. I fattori chiave sono un senso di legame storico con il luogo percepito come originario, ed una rete internazionale di persone appartenenti alla stessa etnia e religione” (p. 23, trad. it. mia), e Hinnells si spinge oltre nell’azzardare che il senso di identità, per la diaspora ebraica come per quella zoroastriana, sia plasmato dall’ostilità nei luoghi di nuova residenza, ovvero che in una certa misura l’essere considerati diversi, quando non marginalizzati e persino discriminati, possa favorire la coesione interna del gruppo (John R. Hinnells, The Zoroastrian Diaspora. Religion and Migration, Oxford University Press 2005, pp.23-25).
Debole appare dunque la posizione di altri esperti, tra cui Safran, il quale limitando la sua analisi tra tutti i gruppi zoroastriani ai soli parsi, pur riconoscendo alcune analogie con la diaspora ebraica (la comune appartenenza religiosa, la preminenza nel commercio e nelle libere professioni, l’innovazione industriale, la fedeltà al ceto dirigente), sottolinea come ai parsi manchino la dispersione in più aree ed il mito del ritorno nella madrepatria, probabilmente anche a causa della relativa tolleranza della società maggioritaria Hindu (William Safran, Diasporas in Modern Societies: Myths of Homeland and Return, in “Diaspora”, Spring 1991, pp. 883-899). Va invece detto che, analogamente ai zoroastriani dell’Iran, i parsi hanno un concetto così forte del legame con la terra d’origine da definirsi persiani piuttosto che indiani, e ovunque abitino nel mondo, studiano, viaggiano, si rivolgono, mantenendo come punto di riferimento l’attuale Iran – tanto che negli anni Settanta, sotto il regime dello Shah relativamente loro più favorevole, alcuni di loro hanno persino fatto ritorno.
Negli anni in cui in Europa occidentale si affermavano i principi illuministi ed iniziava l’emancipazione ebraica, la dinastia Qajar che dominò in Persia tra il 1796 ed il 1925 incentivava il proselitismo nei confronti delle minoranze, imponendo la Jizya (una tassa religiosa particolarmente gravosa). I zoroastriani furono vessati con conversioni forzate, cerimonie di pubbliche umiliazioni e regole sul vestiario – compreso non poter portare ombrelli o indossare occhiali.
Anche questo, ricorda qualcosa. “Carry on, carry on, as if nothing really matters”, canta Freddie Mercury.

Sara Valentina Di Palma

(16 febbraio 2017)