Qui Torino – Varsavia e il film incompiuto

A-film-unfinishedNel 1954 a Potsdam Babelsberg nella Germania dell’Est, alcuni archivisti ritrovano per caso in un bunker nazista due scatole contenenti un filmato muto di circa sessanta minuti, senza sceneggiatura, dal titolo “Il ghetto”.
Bisogna aspettare il 2006 perché qualcuno si imbatta in quel materiale e decida di montarlo e renderlo finalmente fruibile a un ampio pubblico. Protagonista di questa impresa è Yael Hersonski, giovane regista israeliana. Il film esce negli Stati Uniti, poi in Germania e in Israele. Finalmente, pochi giorni fa è arrivato il turno dell’Italia: a proiettarlo in anteprima con sottotitoli in italiano è il Museo della Resistenza di Torino, per iniziativa del Goethe Institut of Turin, del Gruppo studi ebraici di Torino e dell’Istituto Salvemini. La proiezione, in qualche modo una vera e propria prima nazionale, è stata preceduta da una presentazione a cura di Sarah Kaminski, docente di ebraico all’Università degli Studi di Torino e membro del Gruppo di studi ebraici di Torino e seguita da un dibattito condotto dal critico cinematografico Michele Marangi, introdotto da Tullio Levi.
Di quali scene è fatto questo “Film incompiuto” (A Film Unfinished, il titolo della pellicola)? Perché è stato girato? Documentazione o propaganda? Qual è il ghetto in questione?
A essere ripreso per volere del Regime Nazista era il Ghetto di Varsavia, nel suo sovraffollamento, nella sua inumanità, nelle sue brutture più profonde. Volti di uomini mangiati dalla fame, bambini non più bambini, ridotti a piccoli scheletri, donne in stracci, strade affollate, alcuni sono un po’ meglio vestiti, alcuni sembrano ancora esseri umani, alcuni troppo attaccati alla vita mantengono un’apparenza di normalità. Questo riprendeva l’occhio indifferente della telecamera, maneggiata da un’altrettanta indifferente ma cosciente troupe di cameramen. Il materiale girato non è mai stato montato, sarebbe dovuto servire per creare un documentario distorto per la macchina spietata della propaganda. Infatti oltre a riprendere scene della “vita” quotidiana sia per le vie del ghetto, sia negli interni delle case, o meglio delle stanze dove erano costrette a vivere intere famiglie in condizioni igieniche pessime, venivano girate scene montate a tavolino, come fosse un set cinematografico a tutti gli effetti. La scelta dei temi cadeva immancabilmente nel grottesco o nella pura e volontaria distorsione della realtà. Scene di donne ben vestite e raffinate che passano il tempo a truccarsi e spazzolarsi davanti a un grande specchio, coppie benestanti che si divertono a una festa ballando e bevendo champagne. Una finzione che va ben oltre la magia del cinema. Mentre le riprese venivano fatte all’interno, all’esterno o semplicemente nella stanza di fianco regnavano la miseria, la fame, la morte imminente. Obiettivo di tutto questo? Far vedere alla popolazione tedesca la bella vita che facevano gli ebrei nei ghetti, affatto infelici, poveri, stremati. Poi la finzione si spingeva oltre arrivando al paradosso: venne chiesto ad alcuni membri della comunità ebraica di simulare un matrimonio, un funerale, la milà, l’uccisone di un animale secondo i dettami religiosi. Non c’era nessun fine didattico ovviamente, l’unico fine era la distorsione: un affollato cordoglio di uomini distinti seguiva la bara del morto poggiata su un carro ricoperto di broccati, gli ebrei dovevano dimostrare la loro ricchezza pure davanti alla morte. Questo è il potere della recitazione, quella forzata. E la prova ce la danno gli stessi cameramen, quando riprendono i marciapiedi perché nella realtà del ghetto era quello il luogo dove si lasciano i cadaveri, poi passava un carretto con due uomini, ebrei ovviamente, che caricavano a stento quelle carcasse, quelle ossa ancora attaccate fra loro da un lembo di pelle, fino alle fosse comuni. Lì i corpi venivano fatti scivolare e si ammassavano l’uno sull’altro. Non c’era bara, non c’era cerimonia, non c’era sfarzo, ma solo morte, la più nera. Gli attori erano quasi tutti ebrei del ghetto che speravano che la partecipazione a questo strano gioco delle parti potesse significare una qualche speranza di salvezza o di grazia o di minimo guadagno per poter comprarsi del cibo o dei vestiti.

Alice Fubini

(17 febbraio 2017)