Classico e classico
Di tanto in tanto mi diverto a interrogare mio padre sulle sue esperienze liceali, un po’ per il gusto di immaginare che cosa ricorderanno i miei allievi tra sessant’anni, un po’ per confrontare programmi, metodi di insegnamento, testi e autori italiani e latini studiati. Le differenze, in rapporto al tempo trascorso, non sono poi molte, anzi, diciamocelo, sono troppo poche. Nonostante tutte le riforme degli ultimi anni, che finora lo hanno intaccato solo in superficie (e tutto sommato credo sia stato un bene), il liceo classico è sostanzialmente lo stesso. Non pare molto cambiata neppure l’utenza. Un’impressione di stabilità rassicurante, ma forse un po’ inquietante. Anche nell’atteggiamento verso la politica si nota una sostanziale uniformità attraverso i decenni: oggi come nei ricordi di mio padre c’è chi ne parla spesso (professori e allievi) e chi non ne parla per nulla; la democrazia e l’antifascismo sono presentati come valori condivisi; l’apologia del fascismo può trovare spazio nei discorsi occasionali di qualcuno ma ufficialmente non è accettata.
Eppure, a pensarci bene (ed è incredibile che io abbia dovuto pensarci bene per rendermene conto) in questo campo c’è una differenza evidente: sui banchi di scuola insieme a mio padre sedevano con ogni probabilità figli di fascisti e di antifascisti, di partigiani e di repubblichini, di persone che pochi anni prima si sparavano addosso a vicenda, di persone che avevano dato la caccia agli ebrei o li avevano denunciati e di persone che avevano rischiato la vita per salvarli. Cosa poteva significare per la generazione dei nostri genitori sedere in quelle aule accanto a quei compagni, con quei professori? Essere nuovamente cittadini italiani in una scuola italiana a studiare le glorie dell’Italia dopo essere stati discriminati, cacciati, perseguitati, braccati, profughi? Dopo aver saputo di amici e parenti deportati e uccisi? Ascoltare le lezioni, essere interrogati, fare temi, versioni, esercizi come se niente fosse successo?
Di Shoah allora non si parlava. Paradossalmente è forse questa la differenza più evidente tra i racconti di mio padre e la mia esperienza di insegnante. Oggi c’è la Giornata della Memoria. Oggi di Shoah si parla. Bene? Male? Troppo? Troppo poco? Comunque se ne parla. Probabilmente ne sanno molto di più i nostri allievi di oggi di quanto ne sapesse la generazione che aveva vissuto quegli eventi più o meno in prima persona. Anche un’altra cosa, però, è assente dai ricordi di mio padre: l’antisemitismo. Non che io abbia mai vissuto nulla di traumatico, ma talvolta qualcosa si sente: insinuazioni, luoghi comuni, battutine, domande insidiose del genere “perché ce l’hanno sempre con voi?”, parallelismi fuori luogo con il conflitto mediorientale. Mio padre non ricorda nulla del genere ai tempi del suo liceo. In qualche modo la doverosa rottura del silenzio sulla Shoah ha fatto cadere anche le barriere tra quello che si può o non si può dire a voce alta sugli ebrei in una scuola pubblica. Inevitabile ma un po’ triste.
Anna Segre, insegnante
(24 febbraio 2017)