Il popolo e la paura
L’evoluzione dei partiti e dei movimenti presenti sulla scena europea che, a vario titolo, vengono chiamati populisti, obbliga ad un supplemento di riflessioni. I tornanti prossimi venturi sono le elezioni politica in Olanda, in calendario per il prossimo 15 marzo e quelle presidenziali francesi, in agenda per due turni tra aprile e maggio. Dai risultati delle formazioni politiche che, a volte anche in maniera tra di loro difforme se non conflittuale, possono tuttavia essere ricondotte ad una qualche comune matrice populista, dipenderà molto del tortuoso cammino dell’Unione europea. La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ha d’altro canto segnato un nuovo passo al riguardo: la sua natura di candidato outsider, capace di occupare gli spazi della politica “tradizionale” ribaltando il mainstream dominante, qualunque effetto produca sul medio e lungo periodo va comunque considerata nella sua carica al medesimo tempo dirompente e spiazzante. In altre parole, capace di ribaltare non solo le vecchie liturgie della politica (di cui in Italia se ne hanno, proprio in questi giorni, sconfortanti manifestazioni) ma anche le configurazioni elettorali abituali. I nuovi poveri, se così si vogliono definire quanti sono vittime dei processi di globalizzazione (o comunque coloro che si sentono tali) e del declassamento che sta subendo una parte del ceto medio nei paesi a sviluppo avanzato, non attribuiscono più molte credenziali ai loro altrimenti tradizionali referenti politici. A subire una crisi che sembra inarrestabile sono quindi sia i partiti della sinistra, quella di estrazione liberale, socialista e socialdemocratica, sia quelle formazioni politiche “mediane” e moderate che dal loro collocarsi in un’ipotetica area centrista dell’asse politico avevano storicamente tratto i maggiori benefici in termini di credibilità e, quindi, di consensi. Alle difficoltà degli uni e delle altre concorre il declino della funzione redistributiva delle ricchezze tradizionalmente svolta dallo Stato. La compressione e l’asfissia dei sistemi di Welfare, soprattutto nei confronti di quelle categorie che non hanno potuto goderne i maggiori benefici, a partire dai giovani, è grande parte in questo processo di polarizzazione e radicalizzazione del voto, dove al più abituale astensionismo si somma la scelta di dare il proprio assenso a chi sembra meglio rappresentare la protesta, canalizzandola verso le élite. Queste ultime non sono solo quelle politico-partitiche, ma anche un più generale (e generico) establishment, identificato di volta in volta con “chi ha e potrebbe fare ma non fa o si astiene dal fare ciò che gli competerebbe di realizzare”. La rabbia di una parte crescente dell’elettorato è infatti rivolta nei riguardi di quei gruppi di potere che nella crisi di mutamento che stiamo vivendo paiono astenersi dal difendere le ragioni della collettività, preferendo semmai auto-tutelarsi, a discapito degli interessi collettivi. La percezione comune di una defezione dalle loro responsabilità è grande parte nel fermento che attraversa le nostre società. Dovrebbero proteggere le società, non lo fanno per smaccato calcolo di privilegio e, di riflesso, l’assenso offertogli viene ritirato, facendolo semmai convergere su nuove (ma anche non recenti) formazioni e liste politiche che promettono un capovolgimento degli equilibri esistenti. Più che in un’epoca rivoluzionaria siamo in presenza di un’età dell’insubordinazione derivante dal senso dell’abbandono e del panico sociale. Non tutto il populismo – termine peraltro oramai in sé tanto generico e così abusato da rischiare di non dire più nulla – viene necessariamente per nuocere. Un esempio tra i tanti è quello che rimanda alla presidenza di Franklin Delano Roosevelt che, per l’accentramento decisionale che la caratterizzava, per il costante richiamo al «popolo sovrano», le continue conflittualità con i poteri federali, insieme ad un più generale stile d’azione e di pensiero, da alcuni politologi e storici è stata annoverata – per l’appunto – tra le espressioni del populismo del secolo trascorso. Ma al di là di delle comparazioni storiografiche e dei parallelismi storici più o meno fondati, ciò con cui dobbiamo (e dovremo sempre più spesso) concretamente confrontarci è il consolidarsi di un fenomeno diffuso, quello della presa elettorale che vanno registrando un po’ per tutto il Continente formazioni politiche che fanno del rifiuto del «sistema» di poteri vigenti la loro bandiera. Il populismo si presenta, oggi, come un discorso fatto al popolo, sul popolo, per il popolo di contro agli assetti e agli equilibri mutevoli emersi dopo la fine del bipolarismo tra Est ed Ovest. La sua forza sta non solo nel cavalcare disagi e malumori ma nel proporsi come un soggetto collettivo capace di dare una forma definita alla moltitudine di persone che, per l’appunto, interpella, appella e convoca come «popolo sovrano». L’implosione dell’alternativa social-comunista (indipendentemente dalla sua concreta praticabilità nei tempi che furono), avvenuta già più di due decenni fa, ha sancito definitivamente la liberazione di uno spazio di rappresentanza che ora, nella crisi indotta dalla trasformazione degli assetti globali, trova nelle formazioni politiche che rinviano al populismo, un solido sbocco. Il nesso tra ciò che chiamiamo «crisi economica», declino delle sovranità nazionali e consunzione del ceto medio costituisce quindi una miscela fenomenale, che alimenta ad oltranza questo processo. Più che al ritorno del fascismo, come certuni, sulla scorta di una reazione emotiva piuttosto che razionale, sono tentati di denunciare, assistiamo al mutamento radicale del campo della politica, ossia delle sue ragioni d’essere, quindi dei suoi fondamenti e della sua interna razionalità. Se un tempo l’obiettivo che ad essa era assegnato era quello di garantire la coesione sociale, mediando nei conflitti di interessi che attraversano le società, oggi essa perde quei caratteri, per assumerne altri. Il populismo non è allora qualcosa che va ad inserirsi in ciò che già c’è ma piuttosto un fenomeno composito, multiforme che si sostituisce a quello che c’era e che adesso sembra non funzionare o non servire più. Alle tendenze oligarchiche, presenti nelle nostre società come nell’Unione europea – che affidano a élite ristrette, presentate perlopiù come espressione di una «tecnica» neutra, dove la decisione è un fatto estraneo alle passioni e agli interessi -, si contrappone una concezione giacobina della rappresentanza, quella della cosiddetta «democrazia diretta», basata sul legame immediato, passionale, umorale tra il leader al contempo carismatico e onnisciente e, dall’altro alto, la massa dei sostenitori. Poco o nulla conta per una parte dell’elettorato che si tratti di un’illusione, essendo semmai alla ricerca esasperata di speranze, quand’anche esse siano fondate su una visione magica e infantile dei processi storici e sociali che li chiamano in causa. Per il cittadino messo ai margini dalle trasformazioni in atto, infatti, quel che conta è recuperare un orizzonte dentro il quale confidare di avere un qualche spazio di rappresentanza, sentendosi altrimenti scavalcato ovunque e comunque. In altre parole, il meccanismo populista raccoglie tale bisogno e lo tramuta, all’intero di un sistema politico che sempre più spesso dà spazio alla spettacolarizzazione, in una vera e propria “messa in scena”. Il successo di personaggi da palcoscenico come Beppe Grillo deve molto a questo processo, dove l’effetto di amplificazione, unito a quello di identificazione emotiva tra spettatore e attore, è parte integrante della proposta politica odierna. Anzi, per più di un aspetto si sostituisce ad essa, o si inserisce al suo interno. Quanto i mezzi di comunicazione di massa incidano in tal senso, è parte della riflessione, evitando tuttavia le facili banalizzazioni che riducono la “messa in scena” alla semplice finzione. Poiché la politica è anche arte della rappresentazione. Rimane il riscontro che il campo dell’informazione, inteso come insieme di funzioni ampie, capaci di generare e indirizzare l’interesse collettivo, svolge un ruolo rilevante nello stabilire le priorità dell’agenda politica e, in immediato riflesso, il modo di affrontarle. La forza di Grillo, per rimanere alla manifestazione domestica del populismo, deriva infatti non tanto dal web quanto dall’essere stato conosciuto, una generazione fa, attraverso la televisione. Cosa che si è poi trasmessa ai più giovani attraverso i new media. La politica, d’altro canto, non è solo un processo razionale e neanche necessariamente ragionevole, mischiando semmai il calcolo alla fantasia, l’interesse alla passione, la storia al mito. I movimenti populisti si alimentano sempre dei fattori secondi in questi binomi. Portandoli a potenza critica ed offrendoli ai loro sostenitori come la semplicistica ed immediata soluzione dei problemi complessi. Il populismo contemporaneo, infatti, nega alla radice la complessità delle nostre società, denunciandone semmai il tratto – a suo dire – falsificante. La logica del populismo è rigorosamente binaria: sì o no, giusto o sbagliato, vero o falso e così via, raccogliendo facilmente seguito tra quanti si sentono compressi (e compromessi) da trasformazioni strutturali di cui subiscono gli effetti ma sulle quali sentono di non potere incidere in alcun modo. Il populismo dà così voce al senso di alienazione, di marginalità e di espropriazione che attraversa le nostre società. È una voce tanto suadente quanto fallace, ma comunque seducente. Non di meno, e la cosa non andrebbe in alcun modo sottovalutata né tantomeno irrisa, è anche il tentativo, non importa quanto discutibile, di rivestire di un qualche senso morale e di un significato condiviso società che sembrano svuotarsi di qualsiasi valore che non sia utilitaristico. Il voto europeo sta confermando questa tendenza, diffusa un po’ in tutto il Continente. Il tramonto delle certezze, la solitudine dei molti, la paura per un futuro visto come potenzialmente minaccioso stanno premiando le formazioni estremiste. Da ciò a ritenere che l’avvenire del progetto federativo europeo sia compromesso ne corre. Tuttavia il segnale è adesso tanto forte quanto inquietante. Attribuirlo ad un presunto ritardo culturale o civile degli elettori che stanno premiando i partiti populisti è fatto di totale miopia. Poiché a motivare tale scelta è soprattutto la paura. Quella di non avere un domani. Il radicalismo populista, che ha un forte baricentro nella destra politica antiliberale ma che trova riscontri anche in alcuni spezzoni della sinistra, è costituito da veri e propri imprenditori politici dell’angoscia. Se l’Unione europea era nata per liberare i popoli continentali da questo fantasma non si può certo dire che sia riuscita a raggiungere l’obiettivo prefissosi. Semmai rischia di alimentarlo, quanto meno nel momento in cui si presenta nel peggiore dei modi, ossia come un coacervo di istituzioni autoreferenziali, con scarso o nullo insediamento nei territori sui quali, tuttavia, gli effetti della sue scelte ricadono quasi a cascata. La dimensione tecnocratica è un vincolo che rischia di svuotare dal di dentro ogni sua residua credibilità. L’ossessione che è andata affermandosi, tra una parte della popolazione continentale, nei confronti dell’euro, visto come uno strumento per distruggere le sovranità nazionali e, con esse, le tutele sociali che queste garantivano, ne è l’indice più evidente. Inutile contrapporre a questo timore i benefici che oggettivamente la moneta unica offre a chi la usa. Si tratta infatti di un meccanismo di identificazione e di imputazione di responsabilità che esula da qualsiasi riscontro obiettivo. I partiti populisti lo sanno bene, e ne sfruttano le opportunità. Ragion per cui il tempo che è andato inaugurandosi sempre più spesso dovrà confrontarsi non solo con la loro robusta presenza parlamentare ma anche con i umori mutevoli dell’elettorato, comunque contrassegnati dalla crescente diffidenza verso tutto quanto possa essere concepito come una “minaccia” al proprio perimetro autodifensivo. La tentazione del rifiuto integrale dell’Unione, nella speranza che la storia sia come un nastro che possa essere riavvolto su di sé, è oramai un fattore strutturale nelle dinamiche politiche europee. Si coniuga al vuoto della proposta che, negli altri campi, tra i tanti protagonisti, si è purtroppo andato affermando. La politica si è infatti sempre spesso ridimensionata ad un esercizio finanziario. Il populismo riempie questo vuoto, dà forma e sostanza alle paure, le guida verso obiettivi, ossia capri espiatori, ridisegna l’orizzonte introducendovi promesse, speranze così come invettive, prescrizioni e proscrizioni. In questo, per più aspetti, è ciò che resta della politica dopo la sua stessa consunzione a promessa illusoria. Gli show di personaggi del palcoscenico che si riscoprono politici, la riduzione del linguaggio a invettiva (un fatto che dura da almeno vent’anni), l’intercambiabilità delle affermazioni e la reversibilità delle promesse, la spregiudicatezza della menzogna fatta passare per astuzia e furbizia, il richiamo agli «istinti» di bassa lega raffigurati come il comune (e sincero) sentire, l’offesa ripetuta come atto di autoaffermazione, la mancanza di civismo sostituito dalla morale del branco, come tutto il resto, costituiscono il campo dentro il quale si sfarina qualsiasi legame sociale che non sia basato sulla prevaricazione. Tuttavia non basta, rispetto a questa deriva, richiamarsi ai principi civili. Il populismo è infatti oltre essi, avendoli per più aspetti piegati alla sua lettura. Il che costituisce una sfida a pieno titolo, richiedendo che ad esso sia data una risposta non solo di ordine moralistico bensì strutturale, rinviando quindi ai modi (o all’assenza di modi) con cui le nostre società integrano gli individui, facendoli diventare cittadini a pieno titolo, o li pongono nelle condizioni di sentirsi emarginati al punto tale da non avere più nulla da perdere nel metterne in discussione gli assetti profondi e condivisi. Il tempo delle prediche è concluso, anche se c’è chi non se ne rende conto, pensando che il proprio ombelico corrisponda alla “pancia” dell’elettore. Il rischio di un clamoroso passo all’indietro è oramai prossimo. Chi non dovesse avvedersene pagherà un dazio operosissimo.
Claudio Vercelli
(26 febbraio 2017)