MEMORIA Cosa fu realmente “il campo modello” di Terezin

TerezínMaria Teresa Milano / TEREZÍN / Effatà Editrice

Questo libro si apre con una delle vicende più agghiaccianti della Shoah, il tentativo da parte di Hitler di creare a Praga un “Museo della razza estinta”, in cui raccogliere reperti – libri, oggetti, documenti, opere d’arte – che documentassero la vita e la cultura degli ebrei dopo la loro distruzione. Il museo doveva sorgere nel luogo dove si trovava e si trova tuttora il Museo ebraico, fondato all’inizio del secolo, accanto all’antico cimitero, lasciato a questo scopo intatto dai nazisti. Un progetto, sottolinea l’autrice, Maria Teresa Milano, che derivava direttamente dai musei etno-antropologici volti a documentare civiltà scomparse o semi-scomparse, se non fosse che in questo caso chi raccoglieva i reperti era anche l’autore della distruzione. Il percorso del libro si dipana poi nella narrazione della storia degli ebrei nell’area boema, per passare, dopo un breve capitolo che introduce alla Shoah raccontando l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, a centrare il discorso su Terezín e sul campo modello di Theresienstadt, il ghetto di Terezín. Un ghetto creato per accogliere ebrei “privilegiati”, simile ad un campo di concentramento se non fosse per le specificità che dai campi di concentramento lo distinguono: la presenza dei bambini, la vita culturale, la musica. E “privilegiato” è un termine difficile da usare, dato che, come nel caso del Museo della razza estinta e degli studiosi ebrei che avevano avuto il compito di organizzarne le collezioni, tutti spediti nelle camere a gas di Auschwitz alla fine del loro lavoro, anche da qui partivano i convogli che portavano ad Auschwitz quei bambini, quei musicisti, quegli scrittori, quegli “ebrei privilegiati”. Il confronto fra l’esperimento del ghetto modello di Terezín e il Museo della razza estinta è nel libro evidente: il procedimento mentale è molto simile, ed è di tutte le aberrazioni e gli orrori del nazismo forse il più difficile da comprendere. È vero che per secoli, a cominciare dai maya e dagli aztechi, i missionari cristiani avevano raccolto i reperti delle civiltà distrutte e imparato la lingua di popolazioni la cui cultura cercavano al tempo stesso di cancellare, ma almeno quei missionari avevano cercato di mantenere in vita quelle popolazioni. La mano che raccoglieva i reperti e quella che pianificava lo sterminio fisico era adesso la stessa. Terezín, una cittadina fortificata a circa settanta chilometri da Praga, era costituita da due distinti luoghi, la Piccola Fortezza, che dal 1940 al 1945 manterrà le funzioni di carcere per oppositori politici, e la Grande Fortezza, divenuta tutta intera il ghetto a partire nel 1941. E se a Varsavia, a Lodz, ovunque, i ghetti erano creati dai nazisti recintando uno spazio all’interno della città, qui era la città che divenne ghetto. Terezín diventa così Theresienstadt, posta sotto il diretto controllo delle SS, e destinata già poco dopo la sua creazione all’internamento di ebrei anziani e cosiddetti “privilegiati” (grandi invalidi di guerra, decorati in guerra, ecc.). Nel mese di settembre del 1942 gli ebrei internati a Theresienstadt sono quasi sessantamila. La mortalità è alta e viene costruito un crematorio capace di incenerire duecento corpi al giorno. Nel 1943, diventerà un ghetto modello, con finalità essenzialmente di propaganda. In quattro anni, fino al 1945, vi furono internate 140.000 persone, di cui 15.000 bambini.

Anna Foa (brano tratto dall’introduzione al libro)
Pagine Ebraiche, febbraio 2017