Testamento del cuore
Negli ultimi giorni sono stato in viaggio tra Parigi, Lyon e Lille alla ricerca di musiche scritte in cattività; partito con un trolley vuoto e uno zaino con due quaderni, sono tornato con la valigia che pesava 18 chili (partiture di Lannoy, Lashermes, Karveno, Thiriet, Martinon, Kornaus, Aqiba, Nozriev, Lebon e altri 12 autori) e lo zaino che letteralmente scoppiava, i funzionari dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi hanno fatto storie ma alla fine mi hanno imbarcato sull’aereo.
Come mai, dopo 30 anni, si torna ancora a casa con valigie strapiene di musica scritta nei Campi, dov’erano in questi anni ricercatori e musicologi?
Recuperare questa musica equivale a ricostruire scuole e ospedali distrutti dalla guerra, ripristinare processi educativi, propedeutici, formativi nell’arte, nella letteratura e nella musica; processi che si ritenevano irrimediabilmente compromessi o definitivamente distrutti dal conflitto bellico e dalla fenomenologia deportatoria.
Le note, i segni, le strutture visibili in ogni foglio musicale non sono che la parte emersa della nave, la punta di un iceberg; nel Campo la scrittura musicale si fa scultura, il segno musicale è letteralmente intagliato sul foglio e contiene lo sforzo fisico aggravato dal contesto ambientale, è scolpito nella carta perché rimanga a testamento del cuore.
In questa musica la profondità dell’ingegno è pari al desiderio di sopravvivenza e inversamente proporzionale al logoramento psico–fisico del suo autore.
Quando si avviano meccanismi di aggregazione urbana coatta come il Campo di concentramento civile e militare in tempo di guerra, entrano in funzione meccanismi di creatività letteraria, sportiva, artistica, musicale, ludica; a Theresienstadt e Westerbork (Campi di internamento e transito per la popolazione civile) piuttosto che presso l’Oflag XB Nienburg–Weser e l’Oflag VI Münster dotato di una biblioteca di 16.000 volumi (Campi di prigionia militare), l’attività intellettuale e la performance artistico–musicale diventano elementi essenziali di connessione e stratificazione sociale, motori di benefici e privazioni, causa di sviluppo e detrimento di relazioni.
Differenze e diffidenze, dovute a problemi di comunicazione linguistica o esigenze ambientali tra gruppi sociali diversi, erano superate grazie alla musica; è successo dappertutto, tra ebrei olandesi e tedeschi a Westerbork, tra ufficiali polacchi e francesi nell’Oflag IIB Arnswalde sino agli strumenti musicali prestati dai POW francesi agli Internati Militari Italiani presso lo Stalag XA Sandbostel.
Rimane la domanda di partenza; cosa non ha funzionato in questi ultimi 70 anni che oggi ci obbliga a girare il mondo inseguendo migliaia di partiture?
Evidentemente, i tempi sono maturi; 40 anni fa il compositore e ricercatore Aleksandr Kulisiewicz (sopravvissuto a Sachsenhausen) non riuscì a convincere un solo editore a pubblicare una antologia di 30 canti polacchi scritti in cattività e lasciò nel cassetto il suo capolavoro letterario, 2.000 pagine di prolegomeni della ricerca musicale concentrazionaria.
Oggi quel trattato (pur limitato alla letteratura musicale, liederistica e poetica polacca in cattività civile) è ancora attuale e inoltre è più facilmente pubblicabile, traducibile, intellegibile.
Dobbiamo salvare tutta questa musica e darle giusti nomi, giusti suoni e giuste paternità.
Francesco Lotoro
(1 marzo 2017)