David Rubinger (1924-2017)
David Rubinger era nella zona della penisola del Sinai quando gli arrivò la voce della conquista del Muro Occidentale di Gerusalemme. Stava immortalando a sud la situazione del conflitto del 1967, la celebre guerra dei sei giorni quando decise di precipitarsi verso Gerusalemme. Riuscì a farsi dare un passaggio da un elicottero fino a Be’er Sheva, dove aveva parcheggiato la sua macchina. Troppo stanco per mettersi al volante, chiese ad un soldato di guidare l’auto al suo posto e macinare quei 100 chilometri che lo dividevano dalla foto che lo rese celebre. Rubinger arrivò nella Città Vecchia e si diresse subito al Kotel. Nei pressi del Muro Occidentale si sdraiò, immortalando tre paracadutisti dell’esercito israeliano (con altri in secondo piano) che guardavano intensamente quanto appena conquistato: il luogo più sacro e importante per il mondo ebraico. Quell’immagine, che Rubinger definì bruttina – “c’è una faccia tagliata sulla destra, nel mezzo c’è un naso che si fa notare troppo, e sul lato sinistro c’è un’altra mezza faccia… da un punto di vista fotografico, non è un granché-, divenne un’icona della guerra dei sei giorni e della riconquista di Gerusalemme.
A quello scatto ne seguirono molti altri, e le fotografie di Rubinger, scomparso oggi all’eta di 92 anni, diventarono presto l’album di famiglia d’Israele. “Ci sono quelli che scrivono le pagine della storia, e ci sono quelli che le illustrano tramite l’obiettivo della loro macchina fotografica. Attraverso la sua fotografia, David ha immortalato la storia come sarà per sempre impressa nella nostra memoria”, il ricordo del Presidente d’Israele Reuven Rivlin.
Nato a Vienna nel 1924, emigrò nella Palestina mandataria nel 1939. Scoprì la fotografia mentre prestava servizio nella Brigata ebraica, durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1997 gli fu conferita la più prestigiosa onorificenza dello Stato ebraica, il Premio Israele.
Come ricorda Rivista Studio, “negli obituary a lui dedicati, David Rubinger, il fotografo israeliano scomparso mercoledì all’età di 92 anni e che ha collaborato per anni con Life e Time, è stato ricordato soprattutto per quella immagine. Ma ce ne sono molte altre che hanno raccontato, in modo altrettanto emblematico, la storia e lo spirito del suo Paese: le due soldatesse che vegliano sulla bara di Yizthak Rabin, Golda Meir che lava i piatti in cucina, la folla festante che accoglie gli ostaggi liberati dopo il raid di Entebbe, Ben Gurion che ascolta la radio, Ariel Sharon, Moshe Dayan e altri generali dal piglio vittorioso, il primo ministro Menachem Begin che aiuta la moglie a rimettersi le scarpe dopo un lungo volo, Bill Clinton con re Hussein di Giordania”. Rubinger immortalerà con la sua macchia fotografica, come ha spiegato Rivlin, i momenti più diversi della storia d’Israele e quelli che più ne hanno segnato la giovane vita, come il ritorno dei soldati che portarono a termine l’operazione Entebbe (nell’immagine in a fianco): la missione che nella notte tra il 3 e il 4 luglio 1976 portò segretamente un commando di militari israeliani all’aeroporto internazionale di Entebbe, in Uganda, dove i soldati di Tsahal, guidati dal fratello di Netanyahu Yonathan (rimasto ucciso nell’operazione), riuscirono a liberare 106 passeggeri e membri dell’equipaggio del volo Air France 139, tenuti in ostaggio da un gruppo di terroristi palestinesi e tedeschi. Rubinger renderà attraverso i suoi scatti la gioia di quei momenti, così come pochi anni prima registrerà le proteste delle Pantere Nere d’Israele, un gruppo ispirato al celebre movimento americano per i diritti degli afroamericani. La versione misrahi (ebrei provenienti dai paesi arabi) delle Black Panthers denunciava una discriminazione del “mondo orientale” da parte dell’establishment ashkenazita, allora guidato dal Primo ministro Golda Meir. Le frustrazioni dovute a condizioni di povertà, al sentimento più allargato di emarginazione, a una rabbia verso la generazione dei padri – o come, scrive nel suo I mizrahim in Israele (Carocci editore) la studiosa Claudia De Martino verso la “generazione del deserto, che aveva accettato troppo passivamente la propria sorte di discriminazione senza ribellarsi” – sfociarono in proteste di piazza (come si vede nella foto), iniziate nei primi anni del 1971. Così recitava uno dei volantini di queste manifestazioni, raccontate da De Martino: “Cari fratelli, rispetto all’indifferenza, / meglio la discriminazione e l’oppressione. / Meglio un’educazione povera/ Meglio un alloggio orrendo/ Meglio la frustrazione/ Siamo stanchi/ Uniamoci e sosteniamo una rivolta giusta./ Possa il nome di Dio essere esaltato e noi vincere”.
d.r. @dreichelmoked
(2 marzo 2017)