Defezione e irresponsabilità

torino vercelliChe dire del troppo dire? Non è un gioco di parole. Da diverso tempo ci si esercita sulla cosiddetta «post-verità», sulle manipolazioni, le mistificazioni ma anche e soprattutto le costruzioni di una sorta di realtà parallela, costituita non dai fatti – e dai loro puntuali riscontri –, come neanche dal confronti tra opinioni diverse ma da immagini che si traducono in fantasie che, per la ragione stessa di essere raccontate al pubblico, si costituirebbero come una specie di contro-realtà, alla quale credere a prescindere da qualsiasi verifica. Nel fuoco della polemica – infatti – pare esserci, più che la «verità» in quanto tale, semmai un’idea plausibile di realtà da condividere. Se è questa la vera posta in gioco, allora il problema non è solo il continuare a denunciare le pur evidenti alterazioni (fake news, trolls e cos’altro), prodotto della volontà di certuni, rispetto ai dati di fatto; così come rischia di risultare poco o nulla produttivo il denunciare la diffusa epidemia di credulità che accompagna l’età che stiamo vivendo. L’una cosa e l’altra, infatti, non sono necessariamente il risultato di un vuoto (di coscienza) ma, piuttosto, il prodotto di un pieno di sollecitazioni, ovvero informazioni più o meno vere, verosimili, falsificate o deliberatamente false, che insieme, e quindi indistintamente, si riversano come una continua gragnola di colpi sul pubblico dei destinatari senza che questo abbia gli strumenti, ossia i codici, per comprendere la maggiore o minore veridicità di ciò che gli si precipita addosso. Non di meno, in mancanza anche della possibilità di cogliere quale sia l’ordine di rilevanza di una qualsiasi informazione rispetto alla propria capacità di scegliere consapevolmente. La confusione crea, tra le altre cose, l’errata percezione che comunque qualcosa si stia muovendo. In realtà ciò che si sta agitando è il rincorrersi di raffigurazioni, al punto che esse diventano come una sorta di rete dentro la quale si rimane impigliati. Tutto si equivale, in questo gioco degli specchi e delle continue rifrazioni, al punto che diventa impossibile distinguere ciò che è fondato da quanto non lo sia in alcun modo. L’unico esercizio possibile, allora, è l’agitarsi delle parole. La mole di cose dette e quindi urlate è davvero impressionante, rivelandosi in continua crescita. Nei social network come, sempre più spesso, anche nella vita di ogni giorno. Un muro di parole, di affermazioni perentorie, come anche di invettive e contumelie variamente assortite. Poiché l’inflazione del dire si sostituisce all’impotenza del fare. Quel che ne deriva è sia una caduta del principio di autorevolezza delle fonti (così come della loro credibilità) sia una decadenza della premessa di responsabilità. Se un po’ tutto si equivale non esiste più un ordine di priorità e neanche una legittima gerarchia di significati. Diventa indifferente il capire chi dice qualcosa e il perché, preferendo semmai l’effetto di scalpore che certe affermazioni, tanto più se grossolane e difficilmente verificabili, producono sulle persone. Quasi che alla ragione e al ragionamento si fossero sostituiti l’emozione e il risentimento. Osserva Bruno Rossi, docente di pedagogia all’università di Siena, che: «Internet, ma soprattutto i social network, si configurano come il primo contesto sociale capace di dare una risposta alle richieste di soggetti infelici: isolati, separati, antisociali, bisognosi di fuga e di evasione dalla realtà esterna, nonché da quella interiore. Tali mezzi tecnologici alimentano e sostengono così un ambiguo senso di felicità». E ancora, riguardo al rapporto con la dimensione della quotidianità, ossia del vivere l’orizzonte di ogni giorno, rileva come vi sia il bisogno sempre più spinto: «di travestirlo di magia, così da poterlo vivere senza interferenze etiche, senza legami sociali vincolanti, senza identificazioni collettive impegnative e soffocanti, senza traguardi e senza radici» (così nel suo libro «Pedagogia della felicità»). Processo al web come madre di tutte le peggiori devianze civili, morali e, soprattutto, relazionali? No, nulla di tutto ciò ma, piuttosto, la comprensione di come il senso crescente di infelicità dei tanti, la percezioni di un immobilismo insopportabile, il timore di perdere quel poco che si ha, si incontrino, passando per i sempre più affollati luoghi virtuali, con la mancanza di un futuro. In un fenomeno di amplificazione che satura oramai molti spazi della comunicazione. Al medesimo tempo, un numero sempre più nutrito di personaggi della vita pubblica, in ciò seguiti da una parte della collettività, si esercita costantemente nell’affermare con perentoria sentenziosità qualcosa purchessia, senza preoccuparsi che a ciò segua un qualche riscontro. Non è solo, come alcuni potrebbero pensare, la vecchia e consolidata tattica della promessa senza seguito. Semmai è qualcosa che va ben oltre a questo abituale orizzonte, tipico della politica soprattutto in tempi pre-elettorali. Il meccanismo, infatti, è molto più diffuso e, quindi, vischioso, chiamando in causa l’atteggiamento di irresponsabilità che si innesca quando chi ha un potere di comunicazione e, quindi, di persuasione, non si assume gli oneri morali e civili che derivano dal dire alla collettività cose che ne influenzino comunque la condotta, soprattutto quando si dovessero creare stati di tensione se non addirittura ciò che è conosciuto come “panico sociale”. Il fomentare l’ansia, l’aizzare contro qualcosa o qualcuno una folla di persone che si sentono a disagio, il fingere di capirne i bisogni inventandosi tuttavia falsi responsabili per i molti problemi, sono l’equivalente contemporaneo degli avvelenatori di pozzi di antica memoria. Laddove, nell’uno come nell’altro caso, nel presente come nel passato, ad entrare in gioco non è tanto la realtà di una minaccia ma la fantasia delirante che ad essa si accompagna, insieme al complesso paranoide che letteralmente l’avviluppa, rendendo concrete paura e afflizioni contro qualcosa di oscuro e rapace. Non si tratta solo di inventarsi dei capri espiatori ma, più in generale, di assumere quell’atteggiamento di falso impegno (“penso io a e per te, ti indico qual è il tuo nemico!”) al quale si accompagna sempre una esacerbazione dei toni al limite dell’isteria. Purtroppo la ragionevolezza – che non vuole dire arrendevolezza ma un senso della misura in ragione del quale preservando l’avversario, quand’anche lo critichi da cima a fondo, tutelo anche me stesso dalle slavine della irrazionalità – è consegnata agli annali della trascorsa morale. Segno, semmai, di inconsistenza, nel nome, invece, di un presunto diritto all’offesa permanente. Tra indignazione tracimante, rabbia spumeggiante, aggressività impotente. Come leoni in gabbia, perennemente istigati al ruggito e alla bava alla bocca. Tornano vecchie suggestioni interventiste: chi intendesse mediare è da subito visto con malanimo, quasi fosse un infiltrato dal campo nemico; chi chiede di capire è additato al ludibrio, come un individuo privo di spirito combattivo. Una chiamata alle armi oramai pressoché perenne, un hooliganismo del verbo, evidentemente in attesa che qualcosa pur capiti, poiché quando ci si gonfia il petto e si alza la soglia della provocazione, prima o poi il vaso, ricolmo, sbrocca e butta fuori tutta la bile che ha raccolto nel tempo. La quale, se ne può stare certi, cade inesorabilmente su chi ha contribuito a raccoglierla.

Claudio Vercelli

(5 marzo 2017)