fratture…

Alla memoria di rav Achille Shimòn Viterbo z z.l. che ha servito il suo popolo con cuore e dedizione…
Dopo la solenne ed entusiastica adesione “faremo e ascolteremo” alle pendici del Sinai la sfida è far seguire le azioni alle parole. E tirare fuori i soldi dalle proprie tasche è molto più difficile che aderire a parole a un progetto comune. Assieme a una tassazione obbligatoria, per la quale ogni ebreo deve dare mezzo siclo, indipendentemente dalla sua condizione economica, la Torà prevede una contribuzione volontaria in ragione della generosità del cuore di ciascuno: “…ordina ai figli di Israele che prendano un’offerta in Mio onore da chiunque sia spinto dal proprio cuore….” (Shemòt, 25; 1-2). Perché la Torà anziché dire “che diano”, ci dice “che prendano”? Solo ciò che diamo è il nostro unico possesso. Le comunità ebraiche sono riuscite nel corso dei secoli a mantenere vive le proprie istituzioni grazie a quei i donatori che con orgoglio e generosità si sono messi le mani in tasca, quando non c’era l’8 x1000 o altri tipi di contributi statali, conformemente a quella complementarietà tra imprenditoria e cultura per la quale le persone facoltose sentivano il dovere di mantenere l’educazione ebraica e i suoi onorevoli attori.
Oggi sempre più spesso nella società generale, l’imprenditoria usa la cultura solo per i suoi fini e obiettivi economici. E anche lo studio è sempre meno concepito come un valore trascendentale. Si studia per fare soldi e per affermarsi socialmente. Ci troviamo a fare i conti con una grave frattura, quella tra cultura e economia, in cui si confondono sempre più i mezzi con i fini. Una crisi che sta incidendo non poco anche nella nostra vita comunitaria nella quale proliferano progressivamente gli ebrei per professione.
Ma il precetto di “prendere una Terumà” (che non a caso deriva dalla radice “innalzamento”) ci insegna che è l’atto del dare che resterà dentro di noi per sempre.

Roberto Della Rocca, rabbino

(7 marzo 2017)