Lo stato del Dialogo

lucreziIl primo numero del 2016 del semestrale di AEC (il Bollettino a cura dell’Amicizia Ebraico Cristiana di Firenze, un periodico che si distingue per la grande serietà con cui percorre, da tempo, un costante cammino di conoscenza e approfondimento critico), presenta un interessante rapporto sull’attuale stato del dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani, offrendo ai lettori i testi integrali di alcuni importanti documenti che sono stati recentemente pubblicati, quali la Dichiarazione rilasciata il 3 dicembre 2015 dal CJCUC (Center for Jewish-Christian Understanding and Cooperation), la successiva pronuncia, del 10 dicembre, della Commissione pontificia per i rapporti religiosi con l’Ebraismo (“Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” [Rm. 11,29]) e altri ancora, fatti oggetto di un’analisi accurata e obiettiva, che mette in risalto tanto i progressi registrati sul piano del riavvicinamento tra le due religioni, quanto le persistenti resistenze e zone d’ombra.
Alcuni di questi documenti sono stati commentati, molto autorevolmente, su queste pagine, e anch’io, nel mio piccolo, ho avuto modo di esternare qualche piccola osservazione. Ma la lettura dell’intero fascicolo, e di quello che mi è sembrata emergere come la direzione di fondo verso cui pare avviato il cd. dialogo, mi suggerisce un’ulteriore considerazione, che va un po’ in controtendenza rispetto a quello che mi pare lo spirito generale della maggioranza dei ‘dialoganti’, da parte tanto ebraica quanto cristiana.
Coma sa chi mi legge, se proprio dovessi classificarmi, per quel che conta, e per quel che significa, mi definirei un non credente, e quindi guardo alle tematiche religiose, sul piano spirituale, col massimo rispetto e con grande interesse, ma anche con una sostanziale estraneità. Quando i rabbini, i sacerdoti o gli imàm parlano dei reconditi piani per la Salvezza, posso solo stare ad ascoltare, non mi azzarderei mai a correggere le loro interpretazioni delle vie del Signore. Ma se, sul piano teologico, la religione può essere per me soltanto un oggetto di studio e di conoscenza, discorso diverso è invece quello che riguarda le conseguenze esercitate dalla religione sul corso della storia, sulla vita concreta vissuta dagli uomini. Questo è qualcosa che interessa da vicino tutti, credenti e non credenti, senza alcuna differenza. Non occorre certo essere cattolici, musulmani o protestanti per essere interessati alla comprensione delle crociate, della strage degli Ugonotti, della Guerra dei Trent’anni. E, dato che i rapporti del cristianesimo nei confronti dell’ebraismo, nella storia, sono stati quello che sono stati, e hanno portato alle conseguenze che conosciamo, l’evoluzione in atto nelle relazioni tra le due religioni non può non rappresentare, per tutti, un argomento di grande importanza. Ed è altrettanto ovvio che, per chiunque non sia chiuso in un’ottica di indifferenza al mondo o di netto integralismo dogmatico, il fatto che queste relazioni volgano al meglio non può non fare piacere, suscitando, con tutte le dovute cautele, speranza e soddisfazione.
Ciò detto, mi permetto di sollevare due piccole domande.
La prima è questa. Confidando nella buona fede delle parti, della quale non vogliamo dubitare, il dialogo ebraico-cristiano è rivolto solo all’attualità, al tempo presente, oppure mira anche, o soprattutto, al futuro, a costruire le basi per tempi di reale armonia, rispetto e collaborazione?
Se, come immagino, la risposta a questa domanda è quella che ci si aspetta, ne solleverei una seconda. Tutti i documenti richiamati, tanto da parte ebraica quanto cristiana, sottolineano le innegabili parentele, vicinanze e affinità tra le due religioni, richiamando la fede nel medesimo Creatore, il comune riferimento alle Sacre Scritture, il legame genetico tra le due tradizioni (“Le cose che noi ebrei e cristiani abbiamo in comune sono più di quelle che ci dividono” [Documento del CJCUC]). E chiedo pertanto: ma è proprio sicuro che, per andare d’accordo, per essere amici, bisogna essere uguali, o simili? È questo che insegna la storia? Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù, Romolo e Remo erano vicini o lontani? Cattolici e ariani avevano delle profonde e irriducibili differenze teologiche? E se cristiani ed ebrei, in quanto simili, devono essere amici, quali amicizia si potrà mai costruire con buddisti, scintoisti, islamici, non credenti? E ancora: se passa il messaggio che l’amicizia si fonda sulla somiglianza, cosa accadrà quando, un domani, qualcuno andrà a proporre di nuovo una lettura diversa del Vangelo, o riprenderà dagli scaffali i testi di Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino (sui quali i dialoganti, comprensibilmente, preferiscono sorvolare)? Insomma: sarebbe proprio impossibile immaginare, proporre, auspicare un’amicizia basata, anziché sulla somiglianza, sul bellissimo valore della differenza?

Francesco Lucrezi, storico

(8 marzo 2017)