Libero arbitrio
“Hitler i disabili li eliminava gratis”, ha scritto Mario Adinolfi sul suo profilo Facebook commentando la scelta della morte assistita nell’ultimo fatto di cronaca che verrà probabilmente presto dimenticato, la morte di Fabiano Antoniani noto come Dj Fabo – e periodicamente si torna a discutere di “eutanasia”, vocabolo che già di per sé esprime una presa di posizione, salvo poi dimenticarsene presto: la vicenda di Eluana Englaro docet.
“Giornalista, politico, giocatore di poker e blogger”; perlomeno sembra che giochi bene a poker, rifletto, mentre leggo la sua biografia su Wikipedia. Sorvoliamo sulla disinvoltura nell’uso dell’anacoluto, che solo Alessandro Manzoni e pochi altri possono permetterselo.
Come anche sulla inopportunità morale ad esprimere un commento siffatto sulla morte di un essere umano, e così sulla sua famiglia.
Per una volta tanto, nel mio pessimismo storico, concordo con Cicerone, perché se davvero in questo caso “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis” (La storia è invero la testimonianza dei tempi, la luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggero di antichità: De Oratore II, IX, 36), dovrebbero essere noti i seguenti fatti.
Uno: Hitler non faceva eliminare gratis i disabili – o presunti tali: poteva accadere che una donna venisse classificata come schizofrenica perché denunciata dal marito per la sua indipendenza, e quindi internata con le altre unnütze Esser, bocche inutili, insieme ad alcolizzati, individui senza fissa dimora, prostitute, insomma una vasta gamma di persone classificate come asociali e quindi istituzionalizzate, per essere poi spesso sterilizzate od uccise (si veda Elizabeth D. Heineman, What Difference Does a Husband Make? Women and Marital Status in Nazi and Postwar Germany, University of California Press 2003).
Programmi di sterilizzazione, come di eliminazione fisica, per Sinti e Rom e ‘disabili’ (inclusa quella che conosciamo come Aktion T4 ovvero l’EU-AKtion, azione eutanasia denominata Tiergartenstrasse 4 dalla sede della Gemeinnützige Stiftung für Heil und Anstaltspflege, l’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale di Berlino dove le teorie eugenetiche diffuse all’epoca anche nei paesi democratici trovarono un’applicazione pratica radicale), avevano un costo conosciuto, stimato e quantificato dal regime, come un costo avevano le complesse pianificazione ed organizzazione della deportazione e dell’assassinio della popolazione ebraica negli appositi lager – del resto, deportare ed uccidere era anti economico eppure prioritario, tanto da dare la precedenza ai carri bestiame sul vettovagliamento e sul trasporto delle truppe al fronte aperto in Russia.
Con präzision, annota del resto nel Dizionario del lager Oliver Lustig (deportato con i genitori e sei fratelli, dalla Transilvania del nord controllata dal regime ungherese di Miklós Horthy, prima nella ex fabbrica di mattoni di Cluj adibita a ghetto, poi a Birkenau e Kaufering), anche per l’assassinio di un prigioniero politico “i familiari ricevevano una fattura sulla quale veniva segnata, con precisione, ogni spesa da rimborsare: la tassa di affrancatura della condanna a morte, le spese di mantenimento durante la detenzione, le spese per l’attuazione della condanna […], le spese per la spedizione della fattura” (Oliver Lustig, Dizionario del Lager, La Nuova Italia 1996, p. 152).
Due: con i dovuti distinguo rispetto ad altri casi (come quello di Englaro già citato), quale essere umano può arrogarsi il diritto di decidere come un altro essere umano debba vivere o non possa voler porre fine alle proprie sofferenze? Questo è proprio quanto l’ideologia nazionalsocialista pretendeva di fare, accanendosi con quanti in lager non riuscivano nel proposito di suicidarsi, come ricorda Christian Goeschel in Suicide in Nazi Germany (Oxford University Press 2009, p. 116) e come testimonia Jean Améry in Intellettuale ad Auschwitz: “Il filo era in fondo una soluzione buona e abbastanza sicura, sebbene vi fosse la possibilità di essere scorti anzitempo, e di finire quindi nel bunker [luogo di tortura], il che significava morire con maggiori difficoltà e sofferenze” (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri 1987, p. 51). Perché, ci rammenta Wolfgang Sofsky in L’ordine del terrore. Il campo di concentramento (Laterza 1995, pp. 87-88), anche decidere di gettarsi contro il filo spinato poteva essere un’ultima, estrema affermazione di libero arbitrio.
Sara Valentina Di Palma
(9 marzo 2017)