Purim – La festa della salvezza
Fiducia in se stessi, fiducia nel Signore
L’ombra di una minaccia mortale, le perfide trame di un consigliere del sovrano, il coraggio di una regina. Fino al colpo di scena conclusivo, che cambia l’intero corso della storia.
Si è festeggiato nelle scorse ore in tutta l’Italia ebraica il Purim, una delle ricorrenze più allegre dell’anno.
Una vicenda che affonda le proprie radici nell’antica Persia ma che ha un messaggio profondamente attuale, come ci spiega in questa riflessione il rav Alberto Moshe Somekh.
La vicenda di Purim mi rammenta il versetto iniziale del capitolo 21 dei Mishlè, i Proverbi del re Shelomoh. Dall’alto della sua esperienza e sapienza egli scrive che “il cuore del re è nella mano di H. come una corrente d’acqua: Egli lo piega a tutto ciò che gli piace”. Come l’uomo dirige l’acqua nei suoi canali verso il luogo che desidera, così anche H. volge il cuore di chi governa verso la realizzazione dei Suoi piani. I re non hanno arbitrio completamente libero nel gestire gli affari politici, perché H. controlla le loro azioni. Per questo – osserva un commentatore – si deve avere più timore di H. che del monarca.
È quanto leggiamo nella Meghillah: inizialmente il popolo ebraico appare come dimenticato a se stesso, in preda a un re volubile (Achashverosh) e a un primo ministro assetato di potere, vendicativo e malvagio (Haman). Nel corso del suo svolgimento, peraltro, la storia si dipana come una “epopea della Provvidenza”. Ancorché il Suo Nome non appaia mai, Egli guida i fatti umani al trionfo definitivo del Bene. Non senza, peraltro, il concorso dell’uomo stesso. La nostra storia è piena di incidenti in cui l’autorità non ebraica muta radicalmente decisione e miracolosamente si schiera al nostro fianco. Ecco un’altra vicenda legata alla Persia, ma assai più recente della Meghillah.
Durante la Prima Guerra Mondiale Rav Chayim Leib Auerbach, che viveva in Palestina sotto la dominazione ottomana, si trovò ad affrontare una difficile situazione con il Sultano. Questi perseguitava gli ebrei arruolandoli a forza nel proprio esercito e inviandoli in prima linea. Il Rabbino fece amicizia con l’ambasciatore persiano in Turchia al punto di essere nominato funzionario del consolato. In questa posizione salvò molti Ebrei di origine persiana dalla leva fornendo loro il passaporto persiano: sapeva infatti che mai il Sultano avrebbe chiamato degli stranieri a far parte delle sue truppe. La Turchia era allora in guerra con un terzo paese, la Russia. Quando il Sultano venne a conoscenza del fatto mandò a chiamare il Rabbino. Questi spiegò che gli Ebrei cui aveva dato il passaporto persiano erano in realtà russi: “I Russi hanno sempre creato molti problemi agli Ebrei. Quando una donna ebrea stava per partorire – argomentò Rav Auerbach- varcava il confine con la Persia in modo che il bambino nascesse lì e divenisse cittadino persiano. È a questi figli che io ho dato il passaporto!” Il Sultano gli inveì: “So che stai mentendo, ma sarebbe davvero vergognoso mettere a morte un uomo con una mente simile”. E il Rabbino fu graziato.
L’episodio raccontato ci fornisce a mio avviso almeno quattro spunti di riflessione. Il primo è che xenofobia e antisemitismo vanno assai spesso di pari passo. I Turchi consideravano invisi tanto i Persiani che gli Ebrei. Regimi o partiti politici che fanno professione di allontanare o discriminare gli stranieri prima o poi faranno lo stesso anche nei confronti di noi ebrei, sebbene in un primo tempo ci si mostrano amici.
Il secondo insegnamento è che gli stranieri e gli ebrei, per quanto oggetto dello stesso odio, possono venire affrontati dal medesimo regime in modo diverso e persino opposto. Nel nostro caso i Turchi non avrebbero accettato nel proprio esercito dei Persiani, mentre arruolavano ben volentieri gli Ebrei e li mandavano a morire. Le differenze sono due: i Persiani erano una popolazione esterna alla Turchia mentre gli Ebrei vivevano all’interno del paese e per eliminarli si doveva ricorrere alle leggi dello stato. Inoltre, mentre i Persiani anche trovandosi in Turchia non avrebbero dato alcuna garanzia di fedeltà nei confronti del paese ospitante, gli Ebrei hanno sempre dato prova di lealtà verso lo stato di cui erano e si sentivano cittadini. Anche una volta mandati al fronte, gli Ebrei non si sarebbero mai ammutinati di fronte al pericolo che erano costretti a correre. Il Sultano sapeva bene che adoperando truppe ebraiche non si sarebbe esposto a sua volta ad alcun rischio.
Il terzo insegnamento riguarda direttamente noi Ebrei. Non confidiamo nell’aiuto di altri uomini. Sviluppiamo la nostra intelligenza e diamoci da fare per affrontare ogni difficoltà anzitutto con le nostre forze. È ciò che Rav Auerbach ci insegna con il suo personale esempio: “Se questa volta tacerai – disse Mordekhay a Ester – la salvezza potrà anche giungere agli Ebrei da un altro luogo, ma tu e la casa di tuo padre magari perirete. Chi lo sa che tu non sia giunta a esser regina proprio per questo frangente?” (Est. 4,14). È la shtadlanut che gli Ebrei di corte hanno messo a disposizione dei loro fratelli in ogni tempo e luogo.
Infine, non pensiamo che l’uomo possa arrivare dappertutto. È significativo che lo stesso capitolo 21 dei Mishlè di cui abbiamo introdotto inizialmente il primo versetto si concluda con le parole: “Il cavallo deve essere pronto per il giorno della battaglia, ma la vittoria dipende da H.” (v. 31). In ultima analisi dobbiamo confidare nella Divina Provvidenza. Ha Lei l’ultima parola su ogni cosa. Dobbiamo avere fiducia in Lui senza confidare nei miracoli. Prepariamo dunque il cavallo. Se un cavallo da guerra è pronto a sacrificare la propria vita per il suo padrone, quanto più ha il dovere di mettersi a repentaglio per H. (cfr. Shemot Rabbà 33,5).
Alberto Moshe Somekh, rabbino
(12 marzo 2017)