Il campo prospettico
Georges Bensoussan è stato assolto dalle accuse mossegli da una parte del campo “antirazzista”. C’è voluto un processo, un tribunale, una corte giudicante, la mobilitazione, invero assai timida, di una parte del mondo intellettuale. L’ingiustamente accusato ne esce libero e, vogliamo sperare, almeno parzialmente risarcito sul piano morale. Ma i problemi che hanno originato questa situazione non solo permangono, uscendone semmai amplificati. Rimandano al fatto che sull’antirazzismo non vi è più una convergenza di opinioni e, quindi, di azioni, essendo divenuto a sua volta un territorio di divisioni e di contrapposizioni. In Francia, la spaccatura tra la società ebraica e una parte del mondo musulmano è evidente. Riflette, nelle sue specificità, il più generale conflitto tra autoctonia e immigrazione, esasperando linee di differenziazione che si stanno trasformando in fenditure incolmabili. Sempre più spesso ci si dovrà confrontare con questo stato di cose. Detto ciò, va riconosciuto che certe questioni sono complesse, non prestandosi a semplificazioni causali né, tantomeno, a banalizzazioni di sorta. La tentazione, da parte di certuni, di ricondurle immediatamente a fatti di bandiera, aderendo aprioristicamente ad una lettura precostituita dei fatti, è, alla resa dei conti, parte stessa del problema che si dice di volere altrimenti affrontare e quindi rimuovere. Il problema è quello delle nuove forme del razzismo e, non di meno, delle metamorfosi che accompagnano l’antisemitismo. Il razzismo, detto per inciso, non è necessariamente “l’odio contro il diverso”. Molto spesso, semmai, si avversa e si contrasta proprio ciò che si ritiene di conoscere meglio, quindi quanto ci è più vicino, e come tale reputato come “minaccia”, piuttosto che quel dista a distanza di sicurezza. Il razzismo non è necessariamente ignoranza, se con questa espressione si intende la non conoscenza. La sua vera natura è invece quella di falsa coscienza. Dà l’impressione, a chi lo fa proprio, di sapere, di conoscere, soprattutto di riconoscere, offrendo tanto facili quanto fallaci scorciatoie nella sua esistenza. Semplifica la vita del razzista, quindi, rendendola impossibile a chi ne è invece bersagliato come vittima. La potenza del razzismo sta nel ridurre l’esistenza degli uomini e delle società ad un insieme di pseudo-opinioni dicotomiche, tutte fondate sulla falsificazione della scienza e della conoscenza. L’insieme di queste falsità, spacciate per perspicaci originalità, è poi avvolto in un comodo involucro, quello moralistico. Il quale serve per renderle insindacabili e, quindi, non giudicabili. L’asserzione razzista non si sottopone a verifica, imponendosi come una verità evidente da sé. La struttura del pensare razzista è intrinsecamente fideista, rimandando più agli atti di fede che non a quelli di indagine. Anche se dei secondi finge di assumerne i tratti analitici e problemztizzanti. Nel mondo dei razzisti non esistono sfumature ma solo divisioni insuperabili, in ultima istanza ricondotte alla lotta tra ciò che sarebbe il “bene” e quanto costituisce il “male”. Sull’antisemitismo si sono versati fiumi d’inchiostro, vergate pagine su pagine, compilate enciclopedie. Sta ancora lì offrendo, in un possibile futuro a venire, una legittimazione a pratiche di avversione e di discriminazione che sono quindi ben lontane dall’essersi risolte una volta per sempre. Non che ci si dovesse illudere più di tanto riguardo alle possibilità di un diverso orizzonte, tanto auspicabile in linea di principio quanto poco realizzabile all’atto concreto. Il primo riscontro, infatti, è che purtroppo non esiste nessun nesso diretto tra una pedagogia illuminista nella lotta al pregiudizio e la concreta attenuazione di quest’ultimo, se non addirittura il suo superamento. In altre parole ancora: tanto è indispensabile la prima quanto il secondo sa rigenerarsi e riformularsi da sé nel corso del tempo. Razzismo, pregiudizio, antisemitismo non sono peraltro parole necessariamente equivalenti, anche se spesso sono usate come termini intercambiabili. Men che meno si può pensare all’antisemitismo semplicemente come al “razzismo contro gli ebrei”. Pur intersecandosi, nelle sue molteplici manifestazioni, con i razzismi (come sempre, in questi casi, il plurale calza meglio), esso ha anche – e soprattutto – delle peculiarità che lo rendono un fenomeno per più aspetti autonomo. Va peraltro sgombrato da subito il campo rispetto a ulteriori atteggiamenti pregiudiziosi (ed anche intellettualmente oziosi, inoperosi, di comodo e null’altro): non esiste una scala di gravità dei razzismi se non nei loro effetti perversi. Non è in corso una gara tra chi possa vantare “più dolore” e, quindi, un maggiore diritto al riconoscimento di tutele accessorie. L’antisemitismo è piombato sulle coscienze europee soprattutto quando ha assunto la fisionomia devastante che gli riconosciamo per via dello sterminazionismo biologico e della pratica dell’annientamento genocida di Stato che il nazismo gli ha modellato come un abito su misura. Una prassi a sé, che tuttavia spacca il Novecento, come una sorta di fenditura, di crepaccio incolmabile, tra un prima e un poi. Improbabile, se non impossibile, che le cose avrebbero assunto tale carattere di monito se fossero concretamente andate in misura diversa, proseguendo magari nella pur drammatica consuetudine delle sopraffazioni verbali e delle violenze fisiche ma non superando tale soglia. Nel qual caso, l’antisemitismo non costituirebbe, come invece è oggi, il punto di non ritorno che gli riconosciamo essere, l’elemento con il quale non si perseguita esclusivamente una minoranza ma si mette a repentaglio l’intera coesione sociale. Detto questo, rimane il campo altrui. Le società postcoloniali lamentano da sempre il pesante lascito delle potenze egemoni, quelle europee, avendoci tuttavia costruito una rappresentazione di sé che si basa, molto spesso, su una diffusa convinzione, ossia di essere vittime per definizione e, quindi, di meritare un risarcimento perenne, a prescindere da qualsiasi riscontro di fatto. Un riscontro non su un passato dove arbitri violenti e subordinazioni coatte sono stati per davvero il pane quotidiano di molte collettività ma semmai su un presente, e soprattutto un futuro, nel quale l’investimento su se stessi dovrebbe costituire il vero volano di una emancipazione che, invece, non è mai arrivata né, in tutta probabilità, giungerà nei tempi a venire. Ciò, quanto meno, se si continuerà a rimanere consegnati ad un passato che non si vuole fare passare, quasi che il ricordo dei trascorsi dovesse cristallizzare una volta per sempre il tempo, non facendolo trascorrere e quindi ipotecando il futuro. Ed è proprio dal campo altrui, dove germina insoddisfazione che si fa risentimento, che arrivano i segnali più problematici rispetto ad un antisemitismo di nuova generazione. Il discorso non è inedito ma, nel suo consolidarsi, ha assunto una fisionomia non solo crescente, cumulativa, acuta e al medesimo cronica ma, in prospettiva, anche e soprattutto dirompente. Tralasciamo per un attimo la questione del web e dell’info-sfera, ossia dell’insieme di relazioni virtuali basate sulla circolazione non di saperi ma di una miriade di frammenti e molecole di notizie, laddove la distinzione tra vero e falso è perlopiù impervia se non impossibile, essendo decadute le tradizionali linee divisorie che nella comunicazione pubblica, invece, la rendevano ancora praticabile. Piuttosto, soffermiamoci su un altro viluppo. Ossia, da un lato sulla saldatura tra i cascami di un antirazzismo spesso non solo inefficace e improduttivo ma nocivo; su quel che residua di un terzomondismo che è oramai solo più la pallida ombra di se stesso ma, al medesimo tempo, continua a presentarsi come ideologia della liberazione dall’oppressione dell’”Occidente”; sulla trasformazione del discorso politico in populismo e sovranismo così come, non di meno, sul mutamento socio-demografico, quest’ultimo fenomeno di grande rilevanza nel nostro Continente e, come tale, destinato a determinarne gli equilibri a venire. La linea di demarcazione del “nuovo” antisemitismo, infatti, si colloca all’interno di queste dinamiche, in una sorta di sistema a rete. Una somma di elementi tra di loro indipendenti, perché in origine molto diversi, i quali, tuttavia, dal momento in cui entrano in contatto, costituiscono un campo di relazioni e istituiscono modi di vedere e pensare il presente che vanno poi consolidandosi e diffondendosi nella lingua e nelle percezioni di senso comune. Troppo spesso si ritiene ancora che il pregiudizio antisemitico sia depositato esclusivamente a destra, in quell’area cosiddetta “radicale”, così come nel milieu del tradizionalismo religioso più reazionario. Oggi il campo prospettico è invece ben più variegato. Il rapporto con il mondo musulmano, infatti, nella sua problematicità, sta concorrendo attivamente a mutare i termini delle questioni di fondo. Il primo punto sul quale riflettere è che l’Islam è una somma di realtà molto diversificate, in costante trasformazione e in tensione tra di loro, se non addirittura in contrasto attivo. Ragion per cui, comunque si intenda affrontare le cose, l’impossibilità di avere degli interlocutori sufficientemente legittimati costituisce lo scoglio contro cui ci si va inesorabilmente ad infrangersi, da subito, qualora si cerchi una qualche linea di confronto. Chi parla a nome di cosa e di quanti? Le linee di comunicazione e scambio hanno fondamento o rischiano di rivelarsi solo delle false piste? Quale sarebbe poi il punto di sintesi, rispetto ad interlocutori che hanno comunque una diversa esperienza della convivenza sociale e delle istituzioni pubbliche? Qualsiasi discorso sull’antisemitismo, nelle realtà musulmane oramai stabilmente presenti in Europa, non può non partire anche da ciò, rischiando altrimenti di rimanere lettera morta o vana predica. Un secondo aspetto, che è tutto fuorché di lana caprina, è il sapere distinguere tra la variegata presenza musulmana in Europa, sempre più consistente, e l’ideologia del radicalismo islamista, in tutte le sue declinazioni. Non si può regalare la rappresentanza della prima alla seconda. Anche solo il differenziale demografico è tale da fare sì che qualsiasi azione di contrasto al pregiudizio e alla radicalizzazione debba tenere in considerazione questo aspetto, per non cadere nella trappola di attribuire a tutti quello che è invece il cavallo di battaglia solo di certuni. Se fosse altrimenti, allora il rischio non tanto di un colossale fraintendimento bensì di una clamorosa sconfitta sarebbe dietro l’angolo. Per il fondamentalismo non esiste migliore premio che il vedersi attribuire un ruolo che non deve in alcun modo assicurarsi, ossia quello di essere inteso come ideologia del riscatto. Una vetrina luccicante che non gli si può concedere, poiché se le cose andassero diversamente, gli spazi di manovra, come di reazione attiva, si ridurrebbero al lumicino. Un terzo passaggio critico è la saldatura, che si riversa nel “nuovo” antisemitismo, tra un atteggiamento di totale adesione alla “causa” palestinese, assunta acriticamente e quindi come oggetto di implacabile polemica, senza che di essa se ne voglia conoscere l’evoluzione storica; la diabolizzazione di Israele, intesa come la reincarnazione collettiva dell’ebreo infido e infingardo, appartenente al vecchio immaginario antisemitico, oggi rinverdito e riportato a nuovi fasti; la demonizzazione del “sionismo” (la virgolettatura è d’obbligo, trattandosi non del rimando ad un concreto movimento politico, sociale e culturale, ma alla sua resa ferocemente macchiettistica), parificato al nazismo. Già si è avuto modo di parlare, anche su questa newsletter, della “leggenda nera” che chiama in causa Israele, inprigionandola tra apartheid, nazificazione ed esasperato etnicismo, fino all’accusa di praticare una sorta di genocidio mascherato ai danni dei palestinesi. Il fatto che tali affermazioni possano rasentare l’assurdo nulla toglie alla loro forza persuasiva e al loro moto propulsivo, laddove questi si esercitino. Poiché si è in presenza di una nuova mitologizzazione del discorso antiebraico, procedura che è propria a tutti gli antisemitismi. Nell’inverosimiglianza riposa la plausibilità dell’accusa: per essere credibili dinanzi ad un pubblico proclive al radicalismo bisogna alzare sempre di più il livello polemico, raggiungendo picchi di assurdità, quelli che risultano maggiormente ghiotti per quanti vogliano scalare il pregiudizio fino a raggiungerne la sommità. Gli elementi della mobilitazione sono quindi l’antisionismo radicale, la mistica della “Palestina” come terra edenica occupata dal diavolo e l’islamizzazione del discorso politico. Nell’antisionismo radicale gli ebrei non sono più avversati nella loro natura di “semiti” bensì per l’essere “sionisti” tout court. Ed i “sionisti” sono un male radicale, al quale si può emendare solo eliminando Israele, equivoco storico e soggetto abusivo nel consesso delle Nazioni. L’obiettivo può essere concretamente raggiunto esclusivamente delegittimando e criminalizzando il fatto stesso che esista, con il confezionare e il farle indossare una veste nazista e razzista. Di fatto queste stigmatizzazioni raccolgono un discreto grado di consenso in una parte dell’opinione pubblica internazionale. Si tratta di automatismi introdotti nel tempo, a partire soprattutto dal 1967, e consolidatisi in decenni di scivolamenti di significati, idee e opinioni. Per ragionare sull’attualità dell’antisemitismo bisogna quindi ripartire da questo orizzonte. Non è esclusivo, incrociandosi ed ibridandosi con ciò che arriva dal passato, ma riassume i termini di un mutamento in atto, dove il pregiudizio antiebraico è solo un indice di un più generale processo di sfrangiamento sociale, politico, civile e culturale che chiama in causa le nostre società, nell’età della globalizzazione. Questo ci dice, tra le altre cose, quanto è incorso a Georges Bensoussan.
Claudio Vercelli
(12 marzo 2017)