disagio…

Secondo un’opinione talmudica (Meghillà, 12 a) il decreto di sterminio del popolo ebraico da parte di Hamàn sarebbe una punizione per la partecipazione al grande banchetto di Achashveròsh narrato nel primo capitolo della Meghillàt Ester. Nonostante il Re avesse provveduto alla kashrùt del cibo, Mordekhai aveva proibito alla sua comunità di partecipare. Cosa si nasconde dietro questo inquietante Midràsh? Achashveròsh nel corso del banchetto avrebbe indossato le vesti del Sommo Sacerdote. I Maestri lo deducono dal fatto che la prima lettera del sesto verso della Meghillà è scritta più grande rispetto alle altre. La lettera è una chet (valore numerico 8): il Sovrano aveva tirato fuori per il banchetto gli arredi sacri del Santuario che erano stati depredati dal suo predecessore Nabucodonosor e si era vestito con gli otto abiti del Sommo Sacerdote! C’è un profondo legame tra la Meghillà e la Parashà di Tetzawè che si legge quasi sempre nello Shabàt che precede Purìm, ma questo legame è “nascosto” nella più perfetta tradizione della festa. Nella Parashà di Tetzawè vengono prescritti i due tipi di abbigliamento dei Cohanim: il vestito del Sommo Sacerdote, il Vestito d’Oro (composto da otto capi) e quello del semplice Sacerdote, il Vestito Bianco (composto da quattro capi). Qualsiasi atto di culto del Santuario, compiuto senza l’abito rituale, è invalido. Il Cohen Gadòl agisce per conto di tutto il popolo. Egli materializza questo concetto indossando una “divisa sacra” che è in effetti di proprietà del popolo di Israele, per il suo onore e splendore “E farai delle vesti sacre per Aron tuo fratello, per onore e splendore” (Shemòt, 28; 2). Il voler vestire gli indumenti del Cohen Gadòl da parte di Achashveròsh in quella festa vuol dire legittimare la musealizzazione della kedushà di Israele. Achashveròsh non è né il primo, e né l’ultimo a farlo in questo modo. Il Fuhrer, tra i suoi progetti di sterminio del popolo ebraico, aveva istituito a Praga il Museo della razza estinta, esponendo tutti gli oggetti e i paramenti sacri depredati nelle varie comunità di tutta Europa. E a Roma c’è ancora un leader religioso che indossa quegli abiti bianchi, che si ispirano a quelli del Sommo Sacerdote, per ribadire che è lui e la sua struttura ad aver preso il posto del culto del nostro Tempio di Yerushalaim. Lo scenario della Meghillà, non è purtroppo molto diverso da quello di oggi in cui nell’Italia ebraica vi sono più Musei dell’ebraismo che Scuole ebraiche. Una comunità che, nella sua maggior parte vive un ebraismo sempre più ridotto a cene di gala e a cerimonie di rappresentanza di fronte a un potere politico che non aspetta altro che sdoganare la “normalizzazione” di ebrei di corte che, in cerca di visibilità, considerano la nostra specificità una antica memoria storica. È anche per questo che Purim restala festa più attuale del nostro calendario, nella quale la grottesca consuetudine di mascherarsi ci fa provare il disagio e la goffaggine di indossare abiti non propri.

Roberto Della Rocca, rabbino

(14 marzo 2017)