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Nella newsletter ANPInews n.238 (14-21 marzo 2017) la presidenza della gloriosa associazione dei partigiani italiani tenta di fare chiarezza sulla vicenda della (mancata) proiezione del film “Israele, il cancro” organizzata dall’ANPI di Biella. L’intento è di certo propositivo, ma per lo meno su un tema di cui ci occupiamo per motivi professionali – l’antisemitismo – i conti non tornano proprio, sia sul piano teorico, sia politico. La tesi già molte volte sentita per cui criticare le azioni del governo israeliano non costituisce di per sé un atto di antisemitismo è naturalmente ovvia e condivisibile, ma utilizzarla in questo contesto denuncia una forte ambiguità che non può passare sotto silenzio, e dispiace che la presidenza di un’associazione con cui l’ebraismo italiano ha una tradizione di collaborazione pluridecennale nella condivisione dei valori dell’antifascismo e della difesa dei fondamenti della democrazia non si renda conto della strumentalità dell’argomento. Quel film è profondamente antisemita, e anche se il presidente Smuraglia non l’ha visto, come dichiara, non può non rendersi conto dei fatti. La demonizzazione dello stato di Israele in sé, l’affiancarlo a una malattia orribile e incurabile, non è solo un’offesa a chi per quel male soffre e muore, ma una dinamica che è caratteristica di tutti i linguaggi antisemiti e in precedenza antigiudaici che la storia ci ha proposto. Il documentario è concepito per presentare Israele come un’entità semplice e malvagia, abusiva nella sua presenza in Medio Oriente, che ha come scopo programmatico l’oppressione di un altro popolo, i palestinesi. E’ comprensibile che la presidenza dell’ANPI trovi insopportabile l’idea che fra i suoi iscritti ci sia chi pratica le basi dell’ideologia antisemita, e tuttavia non sarà mai troppo tardi per aprire gli occhi e prenderne atto. Non si tratta di un’assurdità: la società italiana è attraversata – lo dicono le statistiche – da una percentuale che varia fra il 10 e il 15% di antisemitismo cosiddetto “puro” (cioè chi è sollecitato dalle domande dei questionari risponde in forma aggressiva e ostile a tutte le domande che riguardano gli ebrei), e non si vede per quale motivo anche fra i membri dell’ANPI non ci possano essere esempi di questo tipo. Non si tratta di una improponibile accusa all’associazione di condividere essa stessa questi sentimenti, ma chi ha responsabilità dirigenziali non può chiudere gli occhi usando argomenti retorici per nascondere un problema reale. Il modello della demonizzazione dell’altro (succede anche con i Rom, con gli immigrati, con l’Islam) semplificandone l’immagine pubblica per poi definirla come malattia incurabile è uno dei modelli più efficaci elaborati dall’antisemitismo politico ottocentesco, e oggi è ampiamente utilizzato nella definizione in negativo di due elementi molto presenti nel dibattito politico contemporaneo: il sionismo e Israele. Si tratta in tutti e due i casi di realtà molto complesse, con una loro storia e un presente difficilmente semplificabile. Eppure entrambi tendono a essere descritti per quello che non sono, tratteggiati in forme semplificate e inequivocabilmente negative e proiettati quindi a male assoluto. Qui non c’entra e non è in discussione l’operato di un singolo governo israeliano, ma la metafora di Israele come prototipo della negatività su cui costruire un paradigma ideologico. Questo è antisemitismo, e prima ci si rende conto del fenomeno, prima si riesce a isolare in un’associazione che per decenni ha guidato con coraggio la battaglia per la difesa dell’eredità della resistenza antifascista in Italia.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(17 marzo 2017)