L’affaire Bensoussan / 1
Non finisce così, se ne può stare certi. E non per fare le Cassandre; semmai si tratta di dotarsi di un minimo di preveggenza. La vicenda giudiziaria che ha coinvolto lo storico e sociologo Georges Bensoussan, della quale ci siamo già ripetutamente occupati su questa newsletter, risoltasi quindi con l’assoluzione dai capi d’accusa attribuitigli, ha il rancido sapore di una vendetta maturata nel corso del tempo (poco importanza va attribuita al fatto che non abbia prodotto gli effetti penali sperati) così come di una sorta di innalzamento della “soglia dello scontro”. Rimane quindi plausibile pensare che a questa iniziativa, abortita per volontà di una magistratura che ha dimostrato di sapere tenere distinte le cose (legittima critica da «istigazione all’odio razziale»), possano seguire, nei tempi a venire, altri ricorsi alle autorità giudiziarie. Poiché il terreno sul quale screditare un’opinione, ancorché secca ma comunque lecita, sta divenendo sempre di più quello scivolosissimo della via giudiziaria alla “verità”. La quale non esiste in sé – non essendo un tribunale la sede nella quale sentenziare nel merito di ciò che è stato detto su questioni di ordine capitale (migrazione, integrazione, cittadinanza e così via) all’interno di un confronto di posizioni diversificate – ma serve comunque a insinuare che il chiamato in correo, in questo caso lo stesso Bensoussan, non sia esente da una qualche colpa, fosse anche solo quella di avere detto delle parole non gradite. E questo va al di là del pronunciamento stesso della magistratura, chiamata a sciogliere la vertenza giudiziaria. L’intera vicenda sembra infatti essere più l’ouverture di un conflitto di lunga durata che non una sgradevole ma occasionale effervescenza in una contrapposizione, altrimenti momentanea, di giudizi. Comunque la si intenda leggere nella sua specificità. Qualche parola un po’ più approfondita sulla figura intellettuale e civile di George Bensoussan, e sul suo magistero culturale, insieme poi al rimando più puntuale a quanto gli è capitato, pare essere quindi necessaria, almeno in questa sede.
Nato in Marocco, da famiglia ebraica (e quindi appartenente all’ebraismo maghrebino), Bensoussan si forma intellettualmente nella Parigi a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, dove poi insegna storia in un liceo. Dall’inizio del decennio successivo è direttore di quella che oggi è conosciuta come l’autorevole «Revue d’histoire de la Shoah», espressione del Mémorial de la Shoah, l’istituzione più attiva, in Francia, sui temi della deportazione e dello sterminio degli ebrei e delle minoranze perseguitate dai nazifascisti. Negli anni successivi si adopera sul versante della didattica storica, fino ad assumere ruoli di primo piano sia nella ricerca che nella divulgazione. Le note biografiche ricordano anche che nel 2010 sottoscrive le posizioni espresse da JCall, l’«European Jewish Call for Reason», il milieu associativo che raccoglie l’intellettualità ebraica favorevole alla ricomposizione del conflitto israelo-palestinese secondo il principio di «due Stati per due popoli».
Più in generale, in quanto storico della modernità ebraica in tutte le sue sfaccettature, Georges Bensoussan si interroga sugli effetti dell’incontro e del confronto tra le identità tradizionali (o comunque ciò che costituisce il rimando collettivo ad esse) ed il mutamento sociale e culturale. La storia dell’ebraismo è, dal suo punto, di vista, una cartina di tornasole per comprendere le dinamiche irrisolte tra particolarismi e universalismi. La storia del sionismo, quella degli ebrei sefarditi provenienti dai paesi arabi, ma anche l’analisi dell’antisemitismo e lo stesso sterminio razzista si inseriscono, in quanto fenomeni comunque con una loro spiccata autonomia storica, all’interno di questa complessa intelaiatura epocale. L’attività di studio, ricerca e divulgazione dello storico (che è nato nel 1952) si articola soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e i giorni nostri. Un fatto importante, poiché Bensoussan si incontra e recepisce, quanto e più di altri autori, i mutamenti ai quali le società europee sono sottoposte in ragione della fine del bipolarismo tra Est ed Ovest, delle diverse configurazioni geopolitiche e sociali assunte dal Continente ma anche degli effetti di lungo periodo dei processi migratori, con il consolidarsi di un Islam dell’immigrazione. I suoi studi sulla Shoah hanno quindi anche tale sfondo di riferimento, soprattutto quando esprime crescenti perplessità verso quei fenomeni di “religione civile” che si accompagnano ad un uso incauto ed ipertrofico della memoria del passato.
Così, tra le altre cose, in «Auschwitz en héritage ? D’un bon usage de la mémoire», licenziatonel 1998, dove l’interrogativo sulla praticabilità di quella che egli intende come una «storia politica» della Shoah cerca anche di evitare gli slittamenti verso i fenomeni di cristallizzazione del ricordo. Il testo, detto per inciso, raccoglie diffusi consensi e il plauso di una parte della sinistra intellettuale francese, a partire dal gruppo che ruota intorno a «Le Monde diplomatique». La medesima cosa può dirsi delle opere successive, ancora fortemente legate all’evento genocidio come alla necessità di costruire intorno alla sua manifestazione fattuale, oramai consegnata al passato, un percorso interpretativo basato sul ricorso alla storia culturale europea di lungo periodo. Nello stesso arco di tempo l’attenzione prosegue sul versante della storia ebraica.
Fondamentale, non meno che monumentale, è la ciclopica ed enciclopedica «Une histoire intellectuelle et politique du sionisme», pubblicata nel 2002. Ancora una volta, declinando il discorso di merito sul piano della storia politica ma anche sulla ricostruzione della fitta trama della discussione intellettuale nel corso di quasi un secolo, il movente di fondo di Bensoussan è di indagare sui rapporti tra background socioculturale d’origine e trasformazioni all’interno di un ampio contesto geografico e spaziale, in un’epoca di accelerazione dei processi storici. La ricostruzione che in tale modo opera del dibattito nel sionismo, e che restituisce integralmente al lettore, è quella di un movimento nazionale il cui vero punto di sintesi, prima ancora che la costituzione di uno Stato, si identifica nella ridefinizione dell’identità ebraica in rapporto ai processi di secolarizzazione politica e di “nazionalizzazione delle masse”. L’indagine, al medesimo tempo erudita (con un corpus di testi e documenti sorprendentemente ricco) e di ampio respiro ermeneutico, di nuovo incassa l’assenso di un nutrito numero di lettori e il plauso di buona parte della critica. La medesima cosa avviene con «Un nom impérissable. Israël, le sionisme, la destruction des Juifs d’Europe»,del 2008. In quest’ultimo testo, oltre a contrastare il luogo comune per cui la Shoah sarebbe stata la ragione causale, e quindi la radice fondativa, dello Stato degli ebrei, Bensoussan identifica nella memoria del genocidio un legame di legittimazione politica con la comunità nazionale ebraica, ma a posteriori e comunque sempre in forme (e formule) irrisolte o incompiute.
Due altri orizzonti chiamano in causa lo storico. Il primo di essi, per alcuni aspetti quasi autobiografico, è raccolto nel volume «Juifs en pays arabes. Le grand déracinement 1850-1975», del 2012. In questo caso il fuoco si fa più polemico di quanto non lo fosse con i testi precedenti. La ricostruzione delle traiettorie di vita delle società ebraiche nell’Africa settentrionale e nel “Vicino Oriente”, tra il XIX e il XX secolo, rimanda a ciò che per l’autore è un processo di progressiva rottura rispetto agli statuti di minorità giuridica che il mondo musulmano aveva assegnato alle minoranze. L’incontro con la modernità culturale ed economica, in altre parole, si sarebbe poi coniugato con il progredire del confronto tra comunità ebraica e società araba nella Palestina mandataria, fino alla frattura generata dalla Seconda guerra mondiale e poi dai processi di decolonizzazione. Per Bensoussan l’abbandono e l’esilio sefardita presenta, al pari di altri fenomeni da lui già analizzati, una lunga durata, che data quindi a ben prima del 1948, quando l’espulsione degli ebrei dai paesi arabi assunse i caratteri di una violenta frattura nel corpo delle stesse società di origine. Ciò ragionando, per lo storico è rilevante il fatto che il nazionalismo arabo faccia proprio, a suo dire, una concezione etnicista della nazione, piegando i percorsi della decolonizzazione ad esiti non solo scarsamente democratici ma anche a logiche identitarie che troveranno poi nel serbatoio simbolico di una religione cristallizzata il fattore di autopropulsione.
Già una decina di anni prima Georges Bensoussan, usando lo pseudonimo di Emmanuel Brenner, aveva coordinato e diretto la redazione di un testo, composto perlopiù da testimonianze e verifiche sul campo, tra cui le voci di molti insegnanti, dedicato a «Les territoires perdus de la République: antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire». A conti fatti, ad una quindicina d’anni dalla sua uscita, il volume costituisce una pietra miliare nella discussione sull’Islam dell’immigrazione in terra francese. Il ritratto che emerge di una parte della gioventù maghrebina, a quel punto già di seconda o terza generazione, è spesso ben poco confortante. Al riproporsi dei temi antisemitici, rielaborati all’interno di un contesto socioculturale che è quello delle periferie urbane come dei grandi agglomerati metropolitani, dove la marginalità economica si incontra con il disincanto e un aggressivo cinismo, si accompagnano sessismo e misoginia, «francofobia» (Alain Finkielkraut) e una aggressività alla ricerca di una partitura politica da recitare. Il testo (e il suo titolo, ripreso poi da diversi uomini politici francesi per descrivere la condizione di crescente entropia delle banlieue) ha diviso, polarizzandoli, i lettori. Proprio «Le Monde diplomatique», per parte di Alain Gresh, una delle voci più autorevoli del collettivo redazionale, ha sollevato dubbi e perplessità sulle conclusioni generalizzanti dell’inchiesta. Ciò che maggiormente lascia perplessi i critici è la formulazione da parte di Bensoussan di una ipotesi, che andrà rafforzando nel tempo, per la quale sussisterebbe un nuovo antisemitismo di matrice prevalentemente maghrebina, fondato su basi prevalentemente etniche e culturali. Per lo storico non si tratta solo di un fenomeno di traslazione del vecchio pregiudizio antisemitico, comunque fortemente innervato in Francia, ma di un’inedita miscela. In essa si raccolgono le pulsioni provenienti da nuovi soggetti (i giovani), fortemente identificati con la segmentazione sociale e culturale che deriva dalle trasformazioni indotte dalla globalizzazione nello spazio europeo e mediterraneo. I giovani maghrebini sono, per Bensoussan, al centro di questo mutamento, trovando nei temi dell’antisemitismo (e dell’antisionismo) una radice d’identità che permette loro di contrattare una fisionomia sociale altrimenti assente.
Lo riafferma in un secondo libro, uscito nel 2004, France prends garde de perdre ton âme, dove il fattore della discendenza del pregiudizio antigiudaico dal substrato originario, quello musulmano, arabo e quindi maghrebino (le tre cose non sono necessariamente omologhe, anche se si incontrano e si miscelano a modo loro nei luoghi dell’immigrazione), si traduce nel ribadire in maniera sempre più decisa il concetto che l’odierno antisemitismo non sia tanto una risposta regressiva alle avversità sociali quanto l’eco profonda di una radicata tradizione differenzialista e separazionista, mutuata dalle culture d’origine: le minoranze sono in sé e di per sé inferiori; gli ebrei, in quanto minoranza densa e manipolatrice, sono al medesimo tempo prevaricatori, diabolici e, quindi, causa delle sofferenze che i musulmani dell’emigrazione stanno vivendo. Con loro non può esserci alcun dialogo, trattandosi semmai di un conflitto a somma zero, dove la sopravvivenza degli uni è legata alla scomparsa degli altri. Bensoussan rileva come il pregiudizio così riformulato si possa legare ad altri atteggiamenti dichiaratamente volti ad idealizzare l’assoggettamento di una parte della società europea, a partire dalle donne, passando per l’omofobia e arrivando ad una visione non solo sessista ma intrinsecamente prevaricatoria delle relazioni di genere. In discussione non c’è solo la condizione delle minoranze ma anche e soprattutto le pratiche di cittadinanza repubblicana. Non a caso sono le scuole delle periferie (non necessariamente intese in termini esclusivamente spaziali) a costituire per l’appunto i «territori perduti della Repubblica».
Claudio Vercelli
(prima parte)
(19 marzo 2017)