Levi papers
Ulisse e qualcosa
Nel capitolo “Il canto di Ulisse” Pikolo e Primo camminano insieme diretti alle cucine per prelevare la zuppa del Kommando chimico. Parlano di se stessi, delle proprie madri. Nella versione 1947 è presente una frase che non troviamo in quella del 1958. Una delle rare cancellazioni, dato che per lo più sono aggiunte. Suona così: “Sua madre è finita a Birkenau”. Perché l’ha cassata? Pikolo, ovvero Jean Samuel, era stato arrestato con i genitori e con il fratello. È la parola Birkenau che vuole togliere qui? In realtà figura già altre volte nella edizione del 1947, almeno cinque. Forse è un dettaglio che svia nel contesto? Levi vuole mantenere una concentrazione su Pikolo, senza alludere al Lager delle donne, alle camere a gas e ai forni crematori? Non è facile rispondere. Interessante invece l’aggiunta che figura nella edizione del 1958. Viene dopo i versi: “Considerate la vostra semenza:/ Fatti non foste per viver come bruti,/ Ma per seguir virtute e conoscenza”. Un punto decisivo del capitolo. Nel 1947 è scritto: “Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono. Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene”. Il tono del passo è davvero inconsueto, a partire dall’aggettivo “buono”. Quel “Come è buono”, suona strano. C’è affezione e tenerezza. Levi lo usa solo riferito a Lorenzo in “I fatti dell’estate”. A confronto il “Povero sciocco Kraus”, delle righe finali del capitolo “Kraus”, suona beffardo, anche se venato di una certa commozione. Pikolo e Kraus sono opposti e complementari in quanto personaggi. Levi nel 1958 aggiunge un passo importante: “O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”. Qualcosa di più del “bene”. Cosa? Levi insiste su un punto che è collegato con la conclusione del capitolo, finale vertiginoso. Dice: Pikolo ha ricevuto il messaggio che volevo dargli; le parole di Dante non le ho scelte a caso, lo riguardano, ci riguardano (“tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie”). Perché qui, in questo momento, andando a prendere la zuppa, camminando quasi da uomini liberi nel campo, noi “osiamo ragionare di queste cose”. Quali cose? La risposta sta nella terzina finale: “Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,/ Alla quarta levar la poppa in suso/ E la prora ire in giù, come altrui piacque…”. È in: “come altrui piacque”. Lì sta quel “qualcosa di gigantesco” che Levi intuisce in quel momento nei versi del Padre Dante. Riguarda il “nostro destino”, “il nostro essere oggi qui”. Non dice espressamente cosa sia il “qualcosa di gigantesco”, lo si può intuire. La condanna del popolo ebraico, il tremendo destino che li ha portati a essere nel Lager, è forse un effetto della volontà divina. L’ha voluto Dio: “come altrui piacque”? Probabile che Levi abbia pensato proprio questo, o che almeno abbia visto questo “nell’intuizione di un attimo”. Non c’è la certezza. Ulisse è lui, sono gli ebrei. Trasferisce su di sé e sul suo popolo la punizione dell’eroe greco nell’anacronismo dantesco. Perché? Non c’è risposta. O forse sì: il popolo ebraico possiede le medesime caratteristiche di Ulisse: intelligenza, sottigliezza, coraggio, ardimento. Per questo Dio l’ha voluto punire. Sorge una domanda: quale Dio? Il dio cristiano o quello del popolo ebraico. Di che Dio si parla? Un groviglio di domande introdotte dal pronome indefinito. Tutto ruota intorno a “qualcosa”.
Marco Belpoliti, scrittore
(19 marzo 2017)