L’affaire Bensoussan / 2
Queste, quindi, le premesse, per come le abbiamo definite nell’articolo precedente. Dopo di che, dalla critica intellettuale si è passati alla polemica astiosa e, infine, alle aule di tribunale. I fatti sono noti ma conviene ricordarli, poiché in Italia, già si diceva, sono stati oggetto di scarsa considerazione. Il 10 ottobre del 2015, durante il programma radiofonico «Répliques», condotto da Alain Finkielkraut per la rete «France Culture», intervenendo nel merito del libro di Patrick Weil «Le sens de la République», Bensoussan ad un certo punto afferma: «oggi ci troviamo in presenza di un altro popolo che si costituisce nel seno della nazione francese, che sta facendo regredire un certo numero di valori democratici che ci hanno accompagnato». In un passaggio successivo aggiunge: «non ci sarà integrazione finché non ci si sarà sbarazzati di questo antisemitismo atavico». Citando poi il sociologo algerino Smaïn Laacher, Bensoussan aggiunge, attribuendo a questi le parole che lascia intendere di ripetere testualmente: «è un’offesa che si mantenga questo tabù, sapendo che nelle famiglie arabe, in Francia – e tutto il mondo lo sa ma nessuno lo vuole dire – l’antisemitismo lo si succhia con il latte dalla madre». Alla piccata risposta di Patrick Weil (presente in trasmissione, il quale controbatte che «è una offesa che tu possa dire una tale cosa, poiché ciò condanna quattro milioni di nostri compatrioti») segue la smentita di Laacher al senso attribuito da Bensoussan alle parole da lui pronunciate. Una quindicina di giorni dopo, infatti, lo studioso algerino parla, al riguardo, «di deformazione oltraggiosa delle mie intenzioni ma anche del mio pensiero. Non ho mai suggerito né supposto che l’antisemitismo di certe famiglie arabe si spieghi per una causa biologica. Una tale tesi che suggerisce l’idea di un razzismo naturale è precisamente agli antipodi dei miei lavori di sociologo. Questa teoria è totalmente estranea da ciò che io sono e dal mio pensiero». In realtà le affermazioni di quest’ultimo (contenute in un documentario proiettato sul canale France 3) sono, letteralmente, le seguenti: « Cet antisémitisme, il est déjà déposé dans l’espace domestique. Il est dans l’espace domestique et il est quasi naturellement déposé sur la langue, déposé dans la langue. Une des insultes des parents à leurs enfants quand ils veulent les réprimander, il suffit de les traiter de Juif. Et ça toutes les familles arabes le savent. C’est une hypocrisie monumentale que de ne pas voir que cet antisémitisme, il est d’abord domestique et, bien évidemment, il est sans aucun doute renforcé, durci, légitimé, quasi naturalisé au travers d’un certain nombre de distinctions à l’extérieur. Il le trouvera chez lui, et puis il n’y aura pas de discontinuité radicale entre chez lui et l’environnement extérieur parce que l’environnement extérieur en réalité le plus souvent, dans ce qu’on appelle les ghettos, il est là, il est dans l’air que l’on respire. Il n’est pas du tout étranger et il est même difficile d’y échapper, en particulier quand on se retrouve entre soi, ce sont les mêmes mots qui circulent. Ce sont souvent les mêmes visions du monde qui circulent. Ce sont souvent les mêmes visions du monde fondées sur les mêmes oppositions et en particulier cette première opposition qui est l’opposition eux et nous. Puis après sur cette grande opposition, sur cette grande bipolarité, eh bien, se construisent une multiplicité d’oppositions entre les nationalités, entres les ethnies, etc.». Qualche mese dopo, nel gennaio del 2016, lo stesso Laacher ritornerà sulla questione con un articolo per «Le Monde». In realtà, al di là del confronto sul merito delle parole stesse, il conflitto non è tra quest’ultimo e Bensoussan. Infatti, è semmai una galassia di associazioni che si pronuncia contro ciò che viene definito come un esercizio di «razzismo biologico, che condanna alla colpa, senza distinzione, una parte della popolazione francese fin dalla nascita». A sostegno di Bensoussan, in una vicenda che si sta avvolgendo a spirale, intervengono su «Le Figaro» del 4 dicembre 2015 un gruppo di storici e sociologi. Prendendone la difesa mettono in rilievo come egli non sia certo il primo a indicare la presenza di un «antisemitismo culturale». Attribuire alle sue parole uno slittamento («glissement») dalla dimensione culturale a quella biologica, è segno di «stupidità quanto di cattiva fede». L’intero lavoro dello storico, peraltro, testimonia della «inanità e [del]la perversione di queste accuse». Non finisce tuttavia così. Invece che rimanere una tempesta in un bicchiere d’acqua, con il trascorrere dei mesi la vicenda cresce di rilevanza. Nel novembre del 2016, ad un anno dai fatti, il Collettivo contro l’islamofobia in Francia (l’ ADDH-CCIF, Association de défense des droits de l’Homme – Collectif contre l’islamophobie en France), da più parti indicato come associazione in qualche modo prossima ai Fratelli musulmani, o comunque non estranea ad alcuni dei loro motivi di fondo, dichiara pubblicamente che ha provveduto a denunciare le parole di Bensoussan alle autorità parigine e che, a seguito di ciò, lo storico sarebbe stato convocato di lì a non molto davanti al tribunale correzionale di Parigi. L’accusa è di «istigazione all’odio razziale», quasi un contrappasso per uno studioso che, per tutta la durata della sua attività professionale ed intellettuale, ha lavorato contro il razzismo e l’antisemitismo. Diverse associazioni si costituiscono quindi parte civile nella causa in atto, attaccando Bensoussan. Tra di queste, oltre al Collettivo, anche la Licra (la Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo), il cui presidente, l’avvocato Alain Jakubowicz, redige e pubblica su l’Huffington Post una secca replica intitolata: «Monsieur Bensoussan, il n’existe pas d’antisémites de naissance», ma anche SOS Racisme così come la Lega dei diritti dell’uomo. La spaccatura che si determina è quindi nettissima. Se Alain Finkielkraut, insieme a studiosi e intellettuali come Boualem Sansal e Yves Ternon, rileva come l’associazionismo antirazzista, storicamente vivace in Francia, abbia oramai perso di vista il suo scopo originario, adoperandosi semmai per «impedire di pensare» poiché si tratta di «sottrarre la realtà all’indagine e i musulmani alla critica», per altri autori la musica è ben diversa. Spiccano, al riguardo, le prese di posizioni di Michèle Sibony, già vicepresidente dell’Unione ebraica francese per la pace, su posizioni dichiaratamente polemiche nei confronti delle politiche dei governi di Gerusalemme, che imputa a Georges Bensoussan un dire «degno di un Drumont» (quest’ultimo esponente delle più accese posizioni antisemite espressesi nella Francia dell’affaire Dreyfus). Non è peraltro l’unico, essendo chiamata in causa l’intellettualità franco-musulmana che, almeno in parte, si esprime duramente contro l’accusato, imputandogli sia l’intenzione di causare fratture tra le comunità arabo-islamiche e quelle ebraiche sia di fomentare una lettura a sua volta “razzista” delle prime. La sentenza, che viene emessa il 7 marzo di quest’anno dalla diciassettesima Camera del tribunale correzionale di Parigi, proscioglie Bensoussan dalle accuse, rilevando come: « enfin et surtout, l’infraction de provocation à la haine, la violence ou la discrimination suppose, pour être constituée, un élément intentionnel », assente invece nel caso dell’accusato, il quale, semmai: « n’a eu de cesse de déplorer cette constitution de deux peuples séparés […] et d’appeler non pas à une séparation de la fraction supposée avoir fait sécession, à son rejet, son bannissement ou son éradication, mais au contraire à sa réintégration dans la nation français». Se le parole di Laacher sono state citate in maniera in parte inesatta è non meno vero che il senso delle medesime risulta aderente al loro significato originario, così come il contesto in cui sono state pronunciate, un dibattito radiofonico, «nel fuoco della conversazione», fa sì che a fronte di un inesistente travisamento di fondo si ponga la questione di capire che il contesto può invece accentuare il tono enfatico e quindi polemico, ma non ostile e neanche intenzionalmente manipolatorio, di certe citazioni. Fin qui la vicenda che, per molti aspetti, parrebbe meritare un’attenzione secondaria. In realtà, tuttavia, rischia di essere la spia di un processo sociale e culturale ben più diffuso, dove in gioco non è solo quel che resta dei difficili rapporti tra l’ebraismo francese e le comunità musulmane ma, più in generale, la questione spinosissima dei percorsi di cittadinanza in Francia così come in Europa. Non è un caso, infatti, se ad essere attaccato sia stato lo stesso Bensoussan. Il quale da tempo si occupa, tra le diverse cose, anche dei fondamenti ideologici di un approccio culturale ai legami sociali, quest’ultimo particolarmente caro ai differenzialisti, ai sovranisti, agli identitaristi che affollano sempre di più, un po’ ovunque, il proscenio politico non solo parigino. Sull’antirazzismo non vi è più una convergenza di opinioni e, quindi, di azioni, semmai essendo divenuto a sua volta un territorio di divisioni e di contrapposizioni. In Francia, la spaccatura tra la società ebraica e una parte del mondo musulmano è evidente. Non è una contrapposizione totale e, ancora meno, di natura religiosa, chiamando piuttosto in causa la cittadinanza repubblicana, il senso di appartenenza ad un consesso sociale fondato su valori comuni poiché condivisi. Riflette, nelle sue specificità, il più generale conflitto tra autoctonia e immigrazione, esasperando linee di differenziazione che si stanno trasformando in fenditure a tratti incolmabili. Il ruolo dell’associazionismo che, a vario nome, si richiama alla lotta contro il razzismo, è stato dirimente in tutta la sgradevole vicenda giudiziaria. Non a caso, peraltro. Di esso, dal suo costituirsi perlopiù negli anni Ottanta ad oggi, si registra un mutamento di statuto pubblico. La Licra, aderendo all’azione giudiziaria contro Bensoussan promossa dal CCIF, è stata attraversata da un profondo malessere, esemplificato, tra le altre cose, dalla scelta di Alain Finkielkraut di dimettersi dal suo comitato dei garanti. Ancora di più sembrano lontani anni luce le mobilitazioni che avevano caratterizzato i decenni trascorsi, quando al motto di «touche pas à mon pote», coniato da SOS Racisme, centinaia di migliaia di persone marciavano per le strade e le piazze delle grandi città francesi a favore dell’eguaglianza e contro il razzismo, da qualsiasi parte provenisse o si manifestasse. Allora la minaccia era identificata nel binomio tra il rifiuto di una destra razzista e xenofoba e la necessità di dare maggiore forza e sostanza ai percorsi di integrazione. Sono passati almeno trent’anni e lo scenario, nel mentre, è radicalmente mutato. La presenza politica islamista, prima ancora che delle comunità di immigrati, si salda oggi alle profonde trasformazioni economiche che stanno attraversando il paese. La qual cosa si è riflessa nelle dinamiche politiche e culturali delle associazioni antirazziste. In mezzo ci stanno scissioni, divisioni, contrapposizioni proprio sul merito di ciò che debba intendersi con il rimando alla lotta contro il pregiudizio. Così come le spaccature sui conflitti mediorientali, sul confronto tra israeliani e palestinesi, sulla natura dei processi migratori, sulle politiche di accoglienza, sui caratteri di una società che si vorrebbe «multiculturale» e che invece rivela, sempre più spesso, il ritorno al comunitarismo dei gruppi che si riconoscono come etnicamente omogenei. Già nel 1993 Paul Yonnet, nel suo «Voyage au centre du malaise français. L’antiracisme et le roman national», identificava, con notevole anticipo e preveggenza, il rischio che l’associazionismo antirazzista involvesse in una sorta di miscela tra enfatizzazione del vittimismo e glorificazione dell’essenzialismo, ossia di una visione dei caratteri di gruppo come di una sorta di sostanza eterna, intesa come una natura immodificabile. Due ingredienti, per paradosso, propri del razzismo, di cui si dice invece di volerne combattere la persistenza. Il tutto amplificato dalla lunga stagione delle leggi sulla memoria, fertile campo di germinazione di una concorrenza tra figli e nipoti delle vittime dei diversi gruppi perseguitati nel passato, oggi alla ricerca di una sorta di riconoscimento sociale in quanto titolari di un ricordo del dolore che si traduce in legittimazione di status politico e civile. Yonnet, già venticinque anni fa, muoveva ad una parte dell’antirazzismo l’accusa di essere l’alleato oggettivo, ancorché ancora involontario e inconsapevole, dell’involuzione identitaria che il lepenismo andava istigando nel Paese. Tra il 2005 e il 2008 l’organizzazione e poi la nascita ufficiale del Parti des Indigènes de la République, (prossimo al Collectif des musulmans de France e a Tariq Ramadan, così come ad una galassia di associazioni comunitariste e “altermondialiste”), sulla base della denuncia sia delle discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche sia dell’affermazione perentoria per cui: «la France a été un État colonial […]. [Elle] reste un État colonial», ha segnato un altro passo nel senso della diasporizzazione culturale e morale del mondo antirazzista. All’interno di una miscellanea di rivendicazioni eterogenee e tra di loro anche in palmare contraddizione, il collante dell’«anticolonialismo», dell’«antimperialismo» e, infine, dell’«antisionismo», è divenuto il filo rosso che tiene unito un antirazzismo sempre più di facciata, ambiguamente prospiciente, in una sorta di irrisolta reciprocità inversa, il sovranismo del Front National. Entrambi trovano infatti due terreni in comune: il discorso ossessivo sull’«identità etnica» come fondamento del proprio campo di appartenenza (“bianchi” contro “neri” così come neri contro bianchi, del pari a musulmani contro “crociati” e “sionisti” ma anche viceversa) e ciò che lo storico Gérard Noiriel definisce come l’interiorizzazione del vocabolario della stigmatizzazione, in una logica che, enfatizzando il proprio ruolo di vittime perenni del «sistema», rende non meno perenne «il circuito delle rappresentazioni che li escludono» dal consesso liberale. Da ciò, sia i neolepenisti che gli antirazzisti identitari cercano di coltivare un capitale politico premiante per i tempi a venire. Se il Front National parla di restituire la Francia ai francesi il Parti des Indigènes de la République risponde richiamandosi alla necessità di «de-occidentalizzare» e «denazionalizzare» la Repubblica. La battaglia sull’esibizione dei simboli religiosi, a partire dal velo ha costituito, ad oggi, il più importante terreno di confronto. Nel nome di una generica libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di opinione, così come della lotta contro misure di legge intese come «neocolonialiste», si sono avanzate istanze identitarie fortemente declinate in senso comunitarista. Gli «Indigeni della Repubblica» richiamano alla necessità di passare da un antirazzismo morale ad uno politico, combattendo contro ciò che definiscono «razzismo strutturale», che pervaderebbe le società europee ed in particolare quelle postcoloniali come la Francia. La lotta contro la laicità, intesa come malattia dell’Occidente, incapace di preservare e tutelare il diritto alla «diversità» e il filo-islamismo (con le numerose manifestazioni di vicinanza a movimenti di «resistenza popolare» come Hamas e Hezbollah e in dichiarata opposizione allo Stato d’Israele, inteso invece come entità politica compiutamente «coloniale»), si sono accompagnate alle più recenti denunce espresse da Houria Bouteldja, portavoce del PIR, contro ciò che viene liquidato come «filosemitismo di Stato», ossia: «una forma sottile e sofisticata di antisemitismo dello Stato-nazionale» che si tradurrebbe in un «trattamenti privilegiato di cui beneficia la repressione dell’antisemitismo in rapporto agli altri razzismi». Il sociologo Pierre-Andre Taguieff, nel suo studio su «La Judéophobie des Modernes. Des Lumières au Jihad mondial», del 2008, ha parlato quindi di «islamo-gauchismo». Altri hanno rilevato come l’ideologia di fondo di questo antirazzismo sia tutto fuorché emancipatoria, giocando semmai su una propria scala di pregiudizi di gruppo, ribaltati e quindi proiettati contro le società occidentali, all’interno di una visione sostanzialmente gerarchizzante della guida dei processi sociali. In essi, alla funzione dirigente del vecchio e declinante movimento operaio viene adesso sostituita quella, del tutto idealizzata, non meno romantica e idealistica ma anche fortemente autoritaria, dei «movimenti postcoloniali». Anche altri intellettuali e studiosi si sono ripetutamente espressi nei termini di Taguieff. Così Leyla Arslann, Bernard Godard, Gilles Kepel, Philippe Corcuff, solo per menzionarne alcuni. Rimane il fatto che la sinistra istituzionale e di governo, a partire dal Partito socialista, è rimasta sostanzialmente afona di fronte a questi mutamenti di registro politico e culturale, mentre quella “radicale” si è ambiguamente aggrappata all’assecondare quanto sta avvenendo, nella vana speranza che anche a partire da ciò possa riconquistare, prima o poi, degli interlocutori attraverso i quali ridisegnare un proprio profilo sociale. La destra liberale, gollista e repubblicana, ha fatto del rapporto tra patriottismo repubblicano e politiche penali ispirate ad un inasprimento del trattamento delle condotte devianti, un nesso inscindibile. Offrendo al Front National di Marine Le Pen una involontaria legittimazione, dal momento che lascia che sia quest’ultimo partito a dettare una parte sempre più cospicua dell’agenda delle priorità politiche ed elettorali. L’intera vicenda incorsa a Georges Bensoussan, per essere intesa nella sua interezza, richiede quindi di essere ricondotta a queste variegate dimensioni di quadro. Non se ne capisce atrimenti la rilevanza, rischianso di derubricarla ad uno screzio occasionale. Il commento amaro e pessimista di Alain Finkielkraut, peraltro anch’egli fatto spesso oggetto di polemiche, rileva come: «il paradosso della nostra epoca è di dovere combattere con la medesima determinazione l’antirazzismo così come il razzismo. L’antirazzismo non è più quel principio che sta a fondamento della nostra esistenza, essendo divenuto un velo. Non è più una morale, è una menzogna. L’antirazzismo è diventato la menzogna ufficiale, l’impero del falso. Nulla indica che si sia sulla via d’uscita». Parole forti e non certo generalizzabili a prescindere da molteplici valutazioni di merito. Segno, comunque, che si è entrati da tempo in un’area di forti perturbazioni, dove nulla è destinato a rimanere uguale a se stesso, tanto più nel tempo a venire.
(Fine. Un estratto di questo articolo è stato pubblicato anche su doppiozero.com)
Claudio Vercelli
(26 marzo 2017)