PSICOANALISI Fede e metodo terapeutico, confronto senza fine

psico e fedeLucia Fattori, Gabriella Vandi / PSICOANALISI E FEDE / Franco Angeli

“Psicoanalisi e fede: un discorso aperto” è il titolo di un volume collattaneo, curato dalle psicoanaliste Lucia Fattori e Gabriella Vandi, che esplora il rapporto tra la dottrina elaborata da Sigmund Freud e l’esperienza religiosa. Edito da Franco Angeli, il libro contiene interventi di autori, quasi tutti psicoanalisti, che esplorano il rapporto tra terapia e fede: esperienza umana che per Sigmund Freud, profondamente consapevole e orgoglioso delle proprie radici ebraiche ma al contempo alfiere di positivismo e razionalismo, arrivò a definire una patologia: “Queste, che si presentano come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni […]. Caratteristico dell’illusione è derivare dai desideri umani; per tale aspetto essa si avvicina ai deliri psichiatrici.” (Freud, L’avvenire di un’illusione, 1927).
Nel volume non poteva mancare un intervento dal punto di vista ebraico, affidato allo psichiatra e psicoanalista Alberto Sonnino, che esplora il rapporto profondo, e fecondo, che il fondatore della psicoanalisi aveva con l’ebraismo.

Freud oscilla tra una forte considerazione, si potrebbe dire una fascinazione, per la cultura ebraica, e il rifiuto di ogni dogma religioso. Che legame aveva il fondatore della psicoanalisi con la propria ebraicità?

Freud non ha subito il fascino della cultura ebraica: era, semplicemente e fondamentalmente, ebreo. Questo aspetto è stato ricostruito da molti autori e psicoanalisti, tra questi mi piace citare David Meghnagi, che nel suo “Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo”, ha sviscerato una relazione forte e complessa.
Nel suo “L’uomo Mosè e il monoteismo”, Freud fa un’operazione quasi sacrilega: decostruisce l’identità ebraica del profeta che fondò il Popolo ebraico come Nazione. Al contempo, l’aspetto ebraico del suo pensiero e del suo metodo è indelebile. La necessità di andare all’origine del senso delle cose, il tentativo di comprendere i fenomeni umani fino alla radice più intima, cercando di individuare le più profonde implicazioni che sono dietro a un concetto, a un pensiero, il metodo interpretativo… Per secoli e millenni i talmudisti hanno lavorato in questo senso. Potremmo dire che Freud ha provato a interpretare l’animo umano con le stesse modalità con cui gli studenti delle yeshivot si dispongono a interpretare i Testi sacri.

Può la fede contribuire al benessere psicologico di un individuo?

La fede è motivo di grande conforto, come qualunque ideale sentito e difeso con convinzione. Nella fede è contemplata la possibilità di confidare in un essere trascendente che regola le leggi dell’universo e della vita, nella cui bontà si confida qualunque cosa accada. Ne è un perfetto esempio la spiritualità ebraica, tutt’oggi viva e vitale, nonostante la Shoah, che ha quasi distrutto l’ebraismo europeo. Nei campi di sterminio, gli ebrei religiosi continuavano a credere e a pregare, anche mentre venivano portati alla morte nelle camere a gas. Per un non credente, accettare le durezze e le ingiustizie del mondo è molto più difficile, molto più faticoso.

Negli ultimi anni, e secondo recenti studi, la psicoanalisi sembra vivere una “seconda giovinezza”, dopo molti decenni in cui la sua fama e la sua diffusione sembravano un po’ appannate.

C’è stata negli ultimi anni una inflazione di metodi terapeutici “scorciatoia”. I tempi che viviamo impongono ritmi serrati, in cui è necessario ottenere i maggiori risultati nel più breve tempo possibile. A discapito, spesso, della qualità. Questi metodi fanno più guai che altro, perché illudono il paziente di aver raggiunto una vera consapevolezza, anche se spesso non è così. Il percorso analitico è lungo, impegnativo, faticoso e costoso. Ma la qualità del metodo è indiscutibile, perché permette di raggiungere risultati profondi e duraturi.

Marco Di Porto