Ragazzi di Tzahal
L’educazione al dialogo, alla pace, al rispetto degli altri che viene letteralmente inculcata agli alunni delle scuole di Israele sta dando i suoi risultati. I nostri ragazzi arrivano a 18 anni, devono arruolarsi nell’esercito e dopo aver trascorso una vita intera a cantare, a suonare, a danzare e a declamare canti di pace e di speranza si ritrovano con un fucile in mano e si sente nel loro atteggiamento una malcelata insofferenza. Hanno trascorso l’infanzia a dare il volo a colombe bianche nel giorno di Rosh HaShanah, il capodanno ebraico, e sono abituati a salutare con un sincero shabbat shalom – sabato di pace – nonni, fratelli, amici e conoscenti già del venerdì sera, ogni venerdì sera. I diciottenni di oggi sono nati dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, sono cresciuti con le immagini su tutti i media degli attentati terroristici a Tel Aviv, a Gerusalemme, ad Afula. Hanno metabolizzato la rabbia, lo stupore, l’impotenza negli occhi dei loro genitori mentre assistevano agli orrori dell’intifada, dell’Isis, delle guerre di Afghanistan, dell’Iraq e di tutti i Paesi che si sono intromessi per aiutare l’una o l’altra parte ma che in sintesi hanno generato solo altra morte e altro dolore.
I diciottenni di oggi, quelli che fino a 21 anni vestiranno l’uniforme di Tzahal e, se verranno scelti come ufficiali, l’indosseranno fino a 22 o 22 e mezzo, sono cresciuti in un Paese in guerra ma il cuore sussurra loro messaggi di intesa, di armonia. Ciò che li sprona e dà loro la forza di andare avanti sono i sogni: le start up che creeranno, il viaggio che programmano per dopo le armi, le nuove canzoni che scriveranno, i corsi masterchef, di teatro, di design, di arte che hanno in testa. I nostri ragazzi sono scevri da ogni forma di violenza e aggressività… e molti genitori si preoccupano… “Chi uno n’azzitta cento n’ammutisce” direbbero a Roma o “Chi mena prima mena due volte”. Ma questo non è il messaggio che hanno ricevuto questi ragazzi nei loro primi diciotto anni di vita: loro hanno incontrato coetanei di culture diverse, hanno partecipato a gare sportive, a festival, a seminari e convegni in Israele e all’estero con ragazzi di Amman, di Ramallah, di Gerusalemme Est, del Cairo. Ciò che li anima è una grande responsabilità. Un profondo senso della famiglia e della casa. L’esercito per questi ragazzi è una realtà, un altro degli aspetti di un Paese in lotta per la sua sopravvivenza. I soldati d’Israele, oggi più di sempre, sanno che debbono continuare a difendere la loro casa e aspettano con fiducia che arrivi un segno dall’altra parte. Un segno concreto per poter dire “mettiamo le armi da parte e cominciamo a costruire insieme, fidiamoci uno dell’altro, smettiamo di essere sciocche pedine!” ma non si sottraggono dal dovere e vanno ad arruolarsi raccogliendo tutta l’umanità, la solidarietà e la positività con le quali sono stati educati.
Qualche anno fa accompagnai uno dei miei figli al treno. Doveva tornare alla base. Sapevo che sarebbe stato di guardia in un check point. Dopo averlo abbracciato gli dissi: Mi raccomando, se c’è qualcuno che dovete controllare a lungo, se ce ne sarà bisogno, dategli dell’acqua, fa caldo” – “Non ti preoccupare mamma!” – “E abbiate compassione” – “Tranquilla mamma, lo sai, non faremo nulla di cui tu ti possa vergognare…” ci lasciammo. Dopo pochi metri si girò e mi disse: “Mamma, spero che ci sia una madre dall’altra parte che dica a suo figlio quello che hai detto tu a me!” e si allontanò con un sorriso. Che D-o continui a benedire questi giovani e dia loro la gioia di gustare il sapore della serenità!
Angelica Edna Calò Livne
(29 marzo 2017)