Società – Rivolta al dominio senza regole I brand lasciano Youtube
La scorsa settimana è stata davvero difficile per Google: grandi aziende hanno sospeso le loro campagne pubblicitarie su YouTube (che appartiene a Big G) dopo aver scoperto, grazie a un’inchiesta del Times, che i loro annunci erano associati a video di propaganda razzista o jihadista e ne avevano involontariamente foraggiato gli autori. Per il gigante del web, una perdita di milioni di dollari. Il caso potrebbe avere effetti importanti, perché mette a rischio il dominio incontrollato di Google (e Facebook) sull’industria pubblicitaria, il loro bullismo gentile nei confronti dei media tradizionali e, alla lunga, la (forse troppo) grande influenza che hanno sulle nostre vite. Non abbiamo a che fare infatti solo con una perdita in termini di reputazione, come nello scandalo delle fake news che ha costretto il social network a introdurre meccanismi di verifica (tutti da verificare a loro volta). Qui si tratta di soldi: Google, come Facebook una macchina da pubblicità, viene colpita al core (business). Finora, come spiega il Guardian, i signori della Silicon Valley hanno contato sulla naiveté degli inserzionisti. I brand non sanno nemmeno dove finiscono i loro annunci. Il «programmatic advertising» promette loro una «targetizzazione» precisa, gli fa cioè credere che il loro messaggio raggiungerà le persone giuste nel modo giusto. Ma è tutto sulla parola: i network non danno mai i dati, mentre si calcola che la somma che gli inserzionisti perdono quando i loro annunci sono aperti da bot anziché da persone sia pari al 20% del mercato. Promettendo salvaguardie più efficaci e più controllo sui contenuti, Google e Facebook ammettono di fatto di essere media company e non asettiche piattaforme non responsabili di ciò che divulgano. E l’industria pubblicitaria potrà ora essere meno in soggezione nei confronti dei giganti che controllano il 90% del mercato online e prosciugano i proventi degli editori. E sulla trasparenza che servono passi. Da giganti.
Gianluca Mercuri, Corriere della Sera, 28 marzo 2017