VERSO PESACH Dalla parte dei più vulnerabili

haggadahh_bosnia_sarajevo2Attualmente ci troviamo a metà strada tra due appuntamenti di grande significato nel calendario ebraico, il 14 Adar e il 15 Nissan o, in altre parole, tre le festività di Purim e Pesach. Entrambe ci chiedono di ricordare momenti importanti della storia ebraica: momenti in cui il popolo ebraico si trovò in una posizione vulnerabile in un paese che non era il suo, alla mercé di eventi storici spiazzanti e di istituzioni politiche ben più grandi e potenti di loro.
Una delle mitzvot di entrambe le ricorrenze consiste proprio nel ri-raccontare e ri-ascoltare le storie stesse. E quest’anno esse possono essere da noi percepite come particolarmente di impatto, soprattutto prestando attenzione alla rinomata esortazione dell’Haggadag che “in ogni generazione ognuno debba sentirsi come se avesse lasciato l’Egitto personalmente”. Che fosse nell’esilio di Persia, o come parte della classe bassa e schiavizzata in Egitto, in entrambi i momenti storici ci ritrovammo nei panni di profughi e rifugiati.
La Meghillat Ester non fa mistero della condizione di esilio di Mordechai e della figlia adottiva Ester. Essi ci vengono presentati come segue: “Nella fortezza di Sheshan viveva un ebreo con il nome di Mordechai, figlio di Jair figlio di Shimei figlio di Kish, della tribù di Beniamino. [Kish] era stato esiliato (haglah) da Gerusalemme nel gruppo (hagolah) che era stato portato in esilio dal re Nabucodonosor di Babilonia” (Ester 2:5-6). In questa introduzione, il verbo esiliare, appare in diverse forme quattro volte nella stessa frase. Una ripetizione così elaborata può significare soltanto che il testo ci chiede di riflettere sullo status di profugo di Mordechai e della sua famiglia. Se anche non conoscessimo di loro nient’altro, dobbiamo sapere che erano in esilio. La vulnerabilità e la condizione difficile degli ebrei deriva proprio dal loro status di rifugiati in terra straniera.
L’Haggadah non è meno sottile nella sua insistenza sulle disastrose conseguenze della dislocazione dalla propria terra. La sezione del Seder Magid – la parte della funzione in cui si racconta nuovamente e si riflette sulla storia dell’Esodo – comincia con le famose parole: “Questo è il pane dell’afflizione che i nostri antenati mangiarono in terra d’Egitto”. Così inizia la rivisitazione della nostra schiavitù e liberazione: con il sapore dell’esilio. Non è solo la povertà del cibo che simboleggia la nostra passata umiliazione, ma anche il luogo in cui lo mangiammo, che il testo specifica: b’ar‘a deMitzrayim, (in terra d’Egitto).
Quest’anno, mentre leggiamo e riflettiamo su questi momenti della nostra antica storia, faremmo bene a riflettere anche sulla condizione di milioni di rifugiati ed esiliati del tempo presente. La storia di Purim, ci invita ad agire per proteggere le minoranze, come fecero Mordechai ed Ester, mentre il racconto dell’Esodo a Pesach ci può aiutare non solo a provare empatia verso i rifugiati di oggi, mentre ci rivediamo nell’esilio che passammo, ma a spingerci anche all’azione. Perché non è un caso che le parole che seguono immediatamente dopo la summenzionata apertura sono del Magid sono: kol dikhfin yeitei veyeikhol (tutti coloro che hanno fame, che vengano e mangino!).

Daniel Leisawitz, Muhlenberg College