VERSO PESACH Il pane della liberazione

shmura-matzaL’associazione ex-allievi della Scuola ebraica di Torino offre un programma di visite guidate di tutto rispetto, in Piemonte e oltre. Lo scorso anno ci condusse al Castello di Manta presso Saluzzo, dove attori e attrici vestiti da personaggi dell’epoca feudale comparivano fra i turisti a raccontare momenti di vita della corte. E così, mentre visitavamo le cucine sentii narrare le lamentele di una serva. I signori, diceva, non condividevano il loro pane bianco con i subalterni, ai quali era riservato invece il pane nero. Solo il vino i padroni di casa dispensavano a volontà, perché era loro interesse mantenere il buon umore della servitù. Queste parole mi hanno chiarito un passo dei commenti di Don I. Abrabanel e di Leon da Modena sulla Haggadah. Entrambi osservano che il Mah Nishtannah manca di un riferimento alla Mitzwah dei “quattro bicchieri” di vino e spiegano che le “quattro domande” sono in realtà equamente ripartite fra due simboli di afflizione (la Matzah e il Maror) e due altri di agio (l’atto di intingere l’antipasto e di mangiare reclinati), mentre del vino non parlano, “in quanto talvolta anche gli schiavi indulgono nel bere”. Contrariamente all’immagine corrente con cui identifichiamo nel vino un’espressione di gioia e di lusso, esso è qui descritto come un elemento potente di coesione sociale. A differenza del pane che rimarcherebbe le differenze di ceto. Ciò potrebbe rispondere a un altro interrogativo sull’episodio biblico che vide protagonisti il coppiere e il panettiere del Faraone. Quando Yossef li convinse a raccontare i rispettivi sogni, al coppiere assicurò che di lì a tre giorni sarebbe stato liberato e reintegrato nel suo incarico, mentre il panettiere sarebbe stato impiccato (Bereshit 40, 11-13). Non sappiamo per quale mancanza i due cortigiani fossero stati gettati in prigione. Possiamo però immaginare che il coppiere sia stato a un certo punto graziato proprio per la funzione che svolgeva. A differenza del collega, una sua condanna avrebbe provocato la ribellione di tutta quanta la servitù. I calici di vino che versava avevano infatti la funzione di rappacificare il popolo. Questo episodio segna l’inizio della presenza ebraica in Egitto, che sarebbe culminata con la schiavitù. La parola kos (“calice”) appare in questo capitolo quattro volte. Secondo il Talmud (Yer. Pessachim 10,1) è questa una delle spiegazioni del fatto che durante il Seder di Pesach si bevono appunto quattro bicchieri: la liberazione del coppiere anticipa, in un certo modo, quella del popolo ebraico. Secondo la Halakhah la Berakhah sui farinacei precede quella sul vino. Lo si impara dall’ordine con cui il versetto presenta i frutti che caratterizzano Eretz Israel: “terra di grano, orzo, vite…” (Devarim 8,8). Nei giorni feriali noi introduciamo il pasto proprio con la Berakhah ha-Motzì sul pane, mentre recitiamo quella sul vino eventualmente solo in un secondo momento. Di Shabbat e nelle feste, invece, l’ordine si inverte e il vino balza in primo piano. I Chakhamim hanno infatti istituito la recitazione del Qiddush prima di ha-Motzì. Mentre i giorni lavorativi in cui si guadagna il pane sottolineano in qualche modo le differenze di status fra le persone, quelli festivi le superano. Alla tavola di Shabbat, per intenderci, anche il più misero di noi siede come se fosse un re. Affinché il pane non scopra la propria vergogna di essere stato “scavalcato” dal vino lo si copre finché non si è bevuto quest’ultimo. Durante il Seder ciò accade anche allorché si prende in mano il calice senza berlo: si coprono le Matzot che per il resto della narrazione devono stare in evidenza. Ogni volta che recitiamo il Qiddush ci troviamo a ribadire che si tratta di “un ricordo dell’Uscita dall’Egitto”. Ma proprio questo significato “trasversale” che attribuiamo al vino non deve sviarci. Portare lo schiavo a sentirsi come un re non significa che debba smarrire il proprio contegno. I nostri Maestri identificano lo stato di ubriachezza di un individuo proprio con la perdita di capacità di parlare davanti a un re (cfr. ‘Eruvin 64a). Lo si impara dall’accostamento dei due versetti seguenti: “Il vino è schernitore, il liquore fa parlare e chiunque indulge in esso non dimostra sapienza. Il timore del re è come il ruggito di un leone e chiunque ne suscita l’ira pecca contro se stesso” (Mishlè 20, 1-2). Per questa ragione chi ha bevuto in abbondanza non può pregare finché non abbia smaltito la sbornia. Se non è in grado di esprimersi davanti a un re terreno, tantomeno lo potrà fare al cospetto del Re celeste. Nel versetto: “La trebbiatura arriverà per voi fino alla vendemmia e la vendemmia raggiungerà la semina” (Wayqrà 26,5), l’espressione “per voi” adoperata per il grano non è poi ripetuta per la vendemmia. Solo il pane si mangia a piacimento. Il vino ci è dato esclusivamente per scopi sacri (Kelì Yeqar ad loc.). Durante il Seder si ripete la Berakhah sul vino dopo aver mangiato. Parafrasando un altro versetto dei Mishlè (22,9) il Talmud spiega che si attribuisce il calice della Birkat ha-Mazon al più generoso dei commensali “che ha dato del suo pane ai poveri”, senza più distinguere fra pane bianco e pane nero (Sotah 38b e Maharshà ad loc.). La sera di Pessach anche il pane supera le barriere sociali: il pane dell’afflizione diviene pane della liberazione. Per tutti!

Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, aprile 2017