Il califfo detronizzato
Daesh, o Islamic State, in quanto organizzazione militare e movimento terroristico, è il prodotto della confluenza di molteplici elementi. Benché oramai in serie difficoltà sui campi di battaglia siriaco-iracheni, e quindi incapace di garantire continuità al suo progetto di “califfato”, non è per nulla destinato a scomparire dal proscenio pubblico. Se l’organizzazione dovesse declinare si può stare certi che verrà sostituita da altre sigle, composte da soggetti similari. Uno spazio come quello che occupa, infatti, non rimarrà mai vuoto per troppo tempo. Barbarico nelle condotte, è invece moderno nella conduzione della guerra di guerriglia e nella sua mediatizzazione, la procedura con la quale comunica, inflazionandone e colonizzando il nostro immaginario, la sua identità “militante” e militare. La concezione che presiede al suo agire è quella della guerra civile permanente, una “creazione” occidentale, se vogliamo ragionare in termini di bipolarismo geopolitico. La prima metà del Novecento (quanto meno dal 1914 al 1945), infatti, è attraversata in tutto il corpo del Continente europeo, dal susseguirsi di una pluralità di conflitti armati, laddove la persistenza e la brutalità delle violenze, sia pure manifestate in forme e modalità diverse tra i due estremi costituiti dalle guerre mondiali, è il nocciolo del dispiegarsi di quel composito fenomeno politico che chiamiamo “totalitarismo”. Sta di fatto che rispetto ad altre organizzazioni islamiste che hanno impegnato, in un estenuante corpo a corpo, le società arabe, quelle musulmane e le comunità nazionali africane e mediorientali in questi ultimi quattro decenni (calcolando come punto di rottura, quindi di non ritorno, l’islamizzazione delle proteste contro lo Shah in Iran e l’intervento sovietico in Afghanistan, dopo la caduta del leader golpista filorusso Nur Mohammad Taraki tra il 1978 e il 1979), la forza aggiuntiva del cosiddetto «Stato islamico» sta nella sua più completa integrazione all’interno dei circuiti della comunicazione virtuale. Una sorta di radicalismo islamista 2.0, se non oltre. Non è un caso, quindi, se la forza di richiamo che esso esercita sia proporzionabile anche alla sua continua esposizione sui media. Almeno per alcuni aspetti, a partire dall’attrazione che il ricorso alla gratuita e compiaciuta brutalità esercita su alcuni “spettatori” ma, soprattutto, in ragione dell’appello alla mobilitazione permanente. Dopo di che, il vero movimento che sta cercando ancora di esercitare non è la venuta verso l’Occidente bensì, in esatta antitesi, il travaso di elementi (cose, persone, risorse ma anche simboli ed immagini) verso l’Oriente arabo e musulmano. Il fenomeno dei «foreign fighters» si inscrive in questa logica. Anche per tale ragione la sua lettura, in chiave univoca, rischia di risultare fuorviante. L’univocità sta, ad esempio, nello stabilire un nesso diretto, ed apparentemente esaustivo, tra radicalizzazione di coloro che scelgono la lotta armata e loro marginalità sociale, quasi che si trattasse di un’equazione sempre e comunque valida. Si tratta, invece, di un facile e banale sociologismo. Chi subisce, nelle infinite periferie dei nostri paesi, come in quelli dell’area mediterranea e mediorientale, gli effetti dei processi di subalternità che derivano dalle asimmetrie economiche, culturali e sociali, non è immediatamente candidabile alla milizia in armi. In altre parole, non è un cadetto del terrorismo. Semmai spesso rivela una pervicace determinazione a resistere alle difficoltà date con strategie di adattamento mobili. Comunque, quasi sempre all’interno di una cornice che è quella assegnatagli dalla società ospite. Il richiamo del radicalismo è senz’altro diffuso tra gli strati della società meno abbienti, ed è un fattore di auto-valorizzazione identitaria per alcuni giovani, ma non si può dire che al momento abbia posto le premesse per drastici rivolgimenti negli equilibri esistenti. Non di meno, pur non disponendo di dati statistici irrefutabili, è da molto tempo che chi studia il fenomeno del radicalismo mette in rilievo come le élite e i corpi intermedi delle organizzazioni, come anche una parte dei militanti più motivati, non sia composto da disadattati di varia umanità e dal cosiddetto “sottoproletariato” bensì da elementi delle classi medie e medio-alte. La stessa ossatura militare di Daesh, quella che esprime il know-how operativo, senza il quale le milizie combinerebbero ben poco, deriva da soggetti che sono transitati dagli eserciti regolari al servizio di questi nuovi padroni. Il sedicente califfato ammazza e distrugge, esibisce oscenamente nel mentre cerca di tesaurizzare per sé risorse e beni, ma la filiera della struttura organizzativa è quella di una moderna organizzazione di guerriglia permanente. Rispetto ai nostri paesi, tre ordini di considerazioni si impongono, a partire dalle quali argomentare una risposta che non sia la capricciosa e insistita ripetizione dei vecchi moduli mentali (accettazione indiscriminata o rifiuto generalizzato della presenza immigratoria). Il primo punto è che ci troviamo dinanzi ad un fenomeno che, a ricalco di quanto avviene nelle nostre società, segna una sorta di sordo conflitto intergenerazionale. Sono infatti i giovani di seconda o terza generazione a rivelarsi maggiormente proclivi, nell’Islam europeo, ai richiami estremistici. Poiché li vivono non come il riscontro di una “tradizione”, da essi altrimenti giudicata come fallimentare, bensì semmai come la sua negazione. Presentandosi sotto la fallace ma promettente immagine di “religione degli oppressi” il radicalismo islamista dichiara non solo inefficaci ma addirittura falsi gli assunti della religiosità tradizionalista, intesa in quanto vero e proprio “oppio per i popoli”, anzi, per la “Umma universale”. Del dettato coranico, infatti, prende solo quello che gli può interessare, abrogando di fatto l’intera intelaiatura teologica e il pluralismo delle correnti, l’una e le altre dichiarate impure e deleterie. L’Islam non è storicità ma una sorta di ossatura ideologica elementare, come tale assimilabile (e adattabile) ad una molteplicità di situazioni. La semplificazione banalizzante gioca sui giovani un potere di attrazione che le famiglie d’origine non esercitano più da tempo, se mai l’hanno avuto, offrendo inoltre un orizzonte di senso basato sul messianesimo politico. Il radicalismo è moderno anche perché coniuga gli effetti di un urbanesimo accelerato, di una scolarizzazione sfiancata con la crisi dei sistemi di integrazione sociale, offrendo una via d’uscita dai dilemmi del presente basata sulla mitologia dell’impegno estremo, quello comportato dal sacrificio di sé (e degli altri). In questo, e per tale ragione, è un fondamentalismo totalitarista. Il secondo punto rimanda al fatto che i processi di secolarizzazione, in Europa, segnalano profonde difficoltà e stanno scontando un arretramento corposo. Poiché non trovano un corrispettivo, altrimenti indispensabile, in quella mobilità sociale (la possibilità di migliorare la propria condizione professionale, economica ma anche di status) che nell’intero Continente è decaduta oramai da tempo. Dinanzi alla crisi radicale di quest’attesa – la promessa che un mondo migliore verrà grazie ai sacrifici nel presente – e al suo sostituirsi con una esistenza senza particolari prospettive, molecolare, individualista, il richiamo ad una esistenza piena di presunti valori, quelli della militanza senza negoziazione, del conflitto a somma zero (tu oppure io poiché non c’è spazio per entrambi), della prevaricazione come auto-affermazione, può risultare accattivante. Non per tutti, sia ben chiaro. Ma senz’altro per un numero sufficiente di individui tali da arrecare danno ad intere collettività. Un ultimo elemento è il fenomeno, culturalmente trasversale, dei “rinati” o dei «born again», coloro che vengono fulminati sulla strada di Damasco (è il caso di dirlo, con un minimo di ironia, per quanto la si possa concedere a questi argomenti) da una visione irriducibile a qualsiasi argomento razionale che non collimi con essa. Nel caso del radicalismo islamista un indice importate è quello dei non musulmani (d’origine), o di quanto provengono da famiglie tiepide, che non hanno valorizzato la religione come esclusivo fattore identitario: la loro accettazione della «via del Jihad» indica come la radicalizzazione sia un processo sociale composito, dove entrano in gioco un insieme di elementi, non solo di ordine economico ma anche legati alla sfera simbolica e culturale. Un fatto, quest’ultimo, che ci segnala quanto il fenomeno sia ben lungi dall’essere occasionale, trattandosi di un processo con il quale dovremo continuare a confrontarci nei tempi a venire.
Claudio Vercelli
(2 aprile 2017)