martirio…

Chi è forte? Chi domina il suo istinto del male, come è detto: è meglio il longanime del forte e chi domina il suo istinto di chi espugna una città. (Pirkeh Avoth 4, 1)
Da questa Mishnah impariamo a non confondere l’eroismo con il Kidush HaShem (“martirio”). Spesso si pensa che il “martire” sia colui che viene posto difronte ad una scelta: soccombere o combattere, morire con onore reagendo o arrendersi. Quasi a voler “togliere” a colui che si lascia morire passivamente il titolo di “martire”. Spesso infatti si “accusa” gli ebrei di essersi lasciati “ammazzare come pecore al macello”. Ma questo modo di ragionare nasconde un errore (al di là della effettiva esistenza della possibilità di scelta di reagire): la confusione del concetto di Kidush HaShem (“martirio”) con la Ghevurah (eroismo). Il martire non necessariamente è un eroe (si veda coloro che si lasciano ammazzare senza reagire), e un eroe non è necessariamente un martire (si veda coloro che combattono per la propria causa, giusta o meno giusta, fino alla morte). Gli ebrei che sono morti passivamente senza ribellarsi nel corso della storia, anche recente, sono martiri e rappresentano una “resistenza passiva e spirituale” non meno onorevole degli eroi che hanno “combattuto con le armi fino alla morte”. Per colui che Santifica il Nome Divino l’uso della forza non rappresenta mai un ideale. È necessario difendersi (“se uno viene li ad ucciderti, difenditi e precedilo”), tuttavia l’ebreo che fa Kidush HaShem, vede l’uso della violenza come la discesa a livello della barbarie del nemico, risponde al male con il bene, non combatte il terrore con il terrore, l’omicidio con l’omicidio, poiché per lui tutto questo non è nemmeno eroismo. Alla memoria della Shoah dovremmo associare non tanto la Ghevurah, quanto il Kidush HaShem.

Paolo Sciunnach, insegnante

(3 aprile 2017)